Letteratura
Se Milan Kundera (non) muore
Avete mai scrutato lo sguardo di Milan Kundera, oltre ad averne letto l’opera? Fatelo ora! La foto che ho scelto a corredo del pezzo è davvero sintomatica: rende, a mio avviso, pienamente conto della sua distanza dall’ipocrisia della comunicazione moderna. I suoi occhi, in cui, oltre a una rassegnazione ludica per lo scatto, scorgo una certa autoironia, sembrano guardare lontano, oltre il punto in cui si trova l’obbiettivo che lo ha inquadrato. Del resto, nel frangente in cui posa a favore del fotografo avrebbe potuto pensare: “Di quale diabolico zoom starai facendo uso per riuscire a inquadrarmi, se io sono altrove, così lontano dal punto in cui ti sei piazzato col tuo aggeggio puntato addosso, nella direzione della mia persona, così distante?” Ecco, al di là dell’interpretazione fantasmagorica, niente spiega l’insostenibile leggerezza dell’essere meglio della sua volontà di finire fuori dalla portata dell’attenzione generale, a vantaggio dell’opera, giammai dell’Io che la realizza. Il libro, dunque, al centro dell’interesse culturale e dell’utilità sociale, non lo scrittore, di cui la fatica letteraria dice già tanto. Prestarsi al racconto di sé, in effetti, allontanandosi dal pretesto di qualsiasi buon libro, che reclamerebbe una discussione ad ampio raggio sulla contemporaneità, vuol dire allinearsi alla persistente moda di una letteratura di second’ordine, buona per i soliti festival a vista e i salotti letterari, da cui si conformano i premi letterari di ordinanza.
Milan Kundera conosceva alla perfezione l’arte di non inginocchiarsi all’attualità, e se ne teneva distante per continuare a essere lo scrittore che era, ma non la ignorava affatto. Aveva una grande fede nella sua attività di scrittore, che non prescindeva dai tempi in cui veniva realizzata, senza esserne, tuttavia, contaminata. Ne “I testamenti traditi”, ha scritto: “Da sempre detesto, profondamente, violentemente, quelli che in un’opera d’arte vogliono trovare una posizione (politica, filosofica, religiosa, ecc.), invece di cercarvi una intenzione di conoscere, di capire, di cogliere questo o quell’aspetto della realtà”.
Infatti, egli rileva nel saggio come diversi romanzieri siano stati “traditi” dai biografi, i traduttori, i critici e gli studiosi in genere, lasciando che se ne travisassero le idee e gli atteggiamenti. Kundera aveva del romanzo una concezione altissima: “è un’opera d’arte che deve accrescere la conoscenza, ma il modo in cui si raggiunge questo obiettivo è prettamente ironico, discreto, a volte ambiguo (tutte caratteristiche dell’ironia); non deve esporre tesi, né sistemi, perché il romanzo deve proporre delle chiavi di interpretazione di noi stessi e della realtà che ci circonda, ma non imporre verità assolute. Se si dimentica questo, si tradisce l’autore.” Il romanzo, pertanto, anche alla luce delle parole del grande scrittore cecoslovacco, ha una sua forza intrinseca che gli permette di vivere da sé, anche slegato dalla biografia dell’autore. E non si può leggerlo unicamente in virtù delle ideologie vigenti nel tempo in cui è stato scritto. Per meglio dire, l’opinione pubblica dominante in un dato momento storico non può assumere la forma di un pertinente giudizio e assurgere al ruolo di critica letteraria. Altrimenti, oggi, per lo stesso criterio, dovremmo considerare il nostro Ministro della Cultura, Sangiuliano, un intellettuale illuminato! Credo fermamente che nel giorno della morte di Milan Kundera bisognerebbe ripensare alla funzione dell’autore nel mondo contemporaneo, alla sua capacità di fungere da nucleo di opposizione a qualsiasi regime di comando. Via, sappiamo tutti che il rispetto di una volta nei confronti dei romanzieri si è sfaldato del tutto, proponendone, il sistema, di improbabili e senza sangue. Oggi è morto Milan Kundera, certo, ma non il suo insegnamento circa l’importanza e il compito che uno scrittore dovrebbe perseguire.
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