Letteratura

Scrittori maledetti. Salgari: povero, depresso e infine suicida

18 Dicembre 2015

Lo scrittore italiano Ambrogio Bazzero, in un certo momento della sua vita, tra gli anni ’50 e ’80 dell’Ottocento, pronunciò o scrisse questa frase: “E perché? perché, mio Dio, ho la mente tanto torpida? Dicono ch’io scrivo con facilità: se sapessero il mio tormento!
Alcuni dei più grandi capolavori della letteratura sono stati concepiti da menti difficili, inquiete, le cui penne tra le mani fremevano pur di produrre un’opera che soddisfacesse il proprio ego. Ma ci furono anche scrittori il cui tormento si manifestava al di là della pagina, fino a tramutare una dote in maledizione.

È il caso di Emilio Salgari, il quale con le gesta di Sandokan e del Corsaro Nero mise un punto fermo alla fine della sua carriera di marinaio, che in verità non iniziò mai. Nato nel 1862 a Verona, dal ’78 frequentò la scuola nautica Paolo Sarpi, ma non la concluse. Per sua fortuna la professione di giornalista in quegli anni era gettonata; ma, diversamente dall’affascinante Georges Duroy, che vide nella scrittura mondana un modo veloce per raggiungere i propri scopi di arrivista, Salgari non arrivò mai. O peggio, arrivò troppo tardi: per due secoli milioni di ragazzini hanno preso i mari e visto luoghi esotici grazie a lui, ma questo successo non se lo godette affatto.

Dal fallimento come marinaio scaturirono le prime opere pubblicate a puntate, come era d’uso ai tempi: nel 1883 usciva La tigre della Malesia su La Nuova Arena. Il consenso che ottenne l’opera fu notevole. Dopotutto Salgari scriveva per sé e per gli uomini del suo tempo, costretti a emigrare in terre lontane in cerca di una parvenza di fortuna che, per i più, si traduceva in lavori forzati nelle miniere o nei porti. Sebbene dovesse competere con firme come Kipling e Verne, a questi giovani uomini Salgari riusciva a parlare di tesori e di pirati, facendo loro sognare le mille vite che non avrebbero mai vissuto. E lo stesso fece per sé. Ma la realtà è che la scrittura lo corrodeva, era lo scrittore peggio pagato del suo tempo e star dietro a un giornale e agli editori era motivo di depressione: “La professione dello scrittore dovrebbe essere piena di soddisfazioni morali e materiali. Io invece sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno ed alcune delle notte, e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi. Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle, e subito spedire agli editori, senza aver avuto il tempo di rileggere e correggere”, scriveva in una lettera all’amico Gamba. Il suo obiettivo era scrivere tanto per guadagnare di più, ma i proventi dei libri tardavano ad arrivare e spesso non si presentavano affatto se non sottoforma di cibi e vivande.

Povero e fallito, la depressione ebbe la meglio: dopo un tentato suicidio, in seguito al ricovero della moglie in un manicomio, alla fine Salgari riuscì a porre fine alla sua vita nell’aprile del 1911, lasciando i suoi editori con queste parole: “A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna.

Fonte: Cultora

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