Letteratura

Sciascia: per la responsabilità dei Magistrati

8 Gennaio 2021

Cento anni fa, 8.1.1920, nasceva un grande intellettuale del Novecento: Leonardo Sciascia.

È, dopo Pirandello, un siciliano di valore, un illuminista, come disse di lui Alberto Moravia, alla rovescia perché tra una verità ortodossa ed un’ inebriante e tagliente eresia, sceglieva la seconda.

Ha avuto la capacità come i grandi scrittori di cogliere anzitempo lo spirito dei tempi, quasi come se fosse profetico.

Non amava la verità precostituita, semmai l’errore, per indagare che effettivamente lo fosse mai stato.
Al di là della sua produzione letteraria, Sciascia viene ricordato come un intellettuale critico, inquieto, ma capace di inserirsi nella dinamica dei conflitti e delle contraddizioni per leggerne la trama interna e l’ordito e coglierne nei dettagli il significato di quello che vogliono esprimere e che forse altri interpreti meno rigorosi nello studio dei documenti e delle fonti, come invece era lui, non individuavano.
Ed, infatti, fu in Italia il primo a gridare dell’innocenza di Enzo Tortora, mentre tutti si piegavano in modo acquiescente e supino all’idea che il presentatore televisivo, molto colto, fosse colpevole, perché la narrazione dei mezzi di comunicazione del tempo si stava uniformando inspiegabilmente a tal giudizio. Scrisse sul Corriere della Sera:

Non mi chiedo se Enzo Tortora sia innocente, sono certo che lo è. Il fatto di conoscerlo personalmente e di stimarlo, uomo intelligente e sensibile (non l’ho visto mai in televisione), può anche essere considerato elemento secondario ed anche fuorviante; ma dal giorno del suo arresto io ho voluto fare astrazione dal rapporto di conoscenza e di stima ed ho soltanto tenuto conto degli elementi di colpevolezza che i giornali venivano rivelando.

Non ne ho trovato uno solo che insinuasse dubbio sulla sua innocenza…

Le accuse dei camorristi pentiti a Enzo Tortora non sono state, prima dell’arresto, accuratamente e scrupolosamente vagliate….

Il metodo dei camorristi consiste nel confondere, nell’intorbidare, nel seminare sospetti ed accuse, nel coinvolgere quante più persone è possibile. Un costruire insomma uno di quei castelli di carta che basta poi toglierne una alla base, perché tutta la costruzione crolli.

Ed ho l’impressione che la carta Enzo Tortora sia stata messa proprio a chiave di tutta la costruzione: una volta che si sarà costretti a toglierla, l’intera costruzione crollerà e tutto apparirà sbagliato e privo di credibilità. E resterà il problema del come e del perché dei magistrati, dei giudici abbiano prestato fede ad una costruzione che già fin dal primo momento appariva fragile all’uomo della strada, al cittadino, che soltanto legge ed ascolta le notizie.

Ogni cittadino, quale che sia la sua professione o mestiere, ha l’abito mentale della responsabilità. Che faccia un lavoro dipendente o che ne eserciti uno in proprio e liberamente, sa che per ogni errore deve rendere conto e pagarne il prezzo, a misura della gravità e del danno che alle istituzioni, da cui dipende ed alle persone cui ha prestato opera, ha arrecato. Ma un magistrato non solo non deve rendere conto dei propri errori e pagarne il prezzo, ma qualunque errore commesso non sarà remora alla sua carriera, che automaticamente percorrerà fino al vertice e credo che sia, questo, un ordinamento solo italiano…Un rimedio paradossale quanto si vuole sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove di esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti e preferibilmente in carceri famigerate, come l’Ucciardone e Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello, ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza” (Corriere della sera 7 agosto 1983).

Era convinto che l’italiano medio fosse come Don Abbondio, poco coraggioso ed incapace di ribellarsi alle ingiustizie per seguire la strada sciocca degli incartapecoriti.

Lo scrisse in un articolo su “La Stampa”di Torino del 1972:

Don Abbondio, vaso di terracotta tra vasi di ferro, è dunque un uomo che da una posizione di forza sceglie di essere debole, da una posizione di libertà di essere servo, ed il suo sistema altro non è che un sistema di servitù volontaria. Si azzarda troppo a dire che nei “Promessi Sposi” attraverso Don Abbondio Manzoni ha rappresentato l’uomo medio nel suo non sentire civile ?“(La Stampa 7/4/1972).
In un libro “L’Affaire Moro”, aveva letto meglio degli altri le lettere dello Statista democristiano e la sua interpretazione era che le stesse effettivamente rappresentavano il suo pensiero, fossero autentiche.
Un giudizio molto bello lo diede Pasolini di Sciascia.

L’autore di “Ragazzi di vita” in una recensione del 1975 a “Todo modo” scrisse che Sciascia si “è sempre mantenuto purissimo, come un adolescente”, e che la sua autorità “è legata a quel qualcosa di debole e fragile che è un uomo solo”.
Aveva capito che la mafia fosse un fenomeno umano da combattere senza pregiudizi e ne aveva squarciato la cortina di pudore e di omertà di cui essa si circondava. Tuttavia rimprovera acutamente chi della sua lotta ne facesse una professione. A tal proposito si ricorda il suo intervento sul “Corriere della Sera” quando scrisse che in Italia uomini pubblici traggono dalla lotta alla mafia dei privilegi, come se l’imprecare fosse una professione “ i professionisti dell’antimafia”; così concludeva l’articolo: “I lettori comunque prendano atto che in Sicilia nulla vale di più, per far carriera nella Magistratura nel prendere parte a processi di stampo mafioso”( Corriere della Sera 10.1.1987).
Aveva quel polso morale che non viene mai meno e nel garbuglio dei fatti coglieva la realtà metafisica di essi.

Aveva come Voltaire, Diderot, il terrore del Sacro e come un letterato leggeva gli avvenimenti nella luce della Storia, senza ipocrisie e stando sempre dalla parte della minoranza. Aveva l’occhio acuto capace di superare ed attraversare l’opacità degli strati. Ma anche quella passione civile per la tolleranza e la pietà della giustizia, sino ad affermare che i Magistrati sono come i burocrati del male, quando agiscono con la coltre brutale del mancato senso di responsabilità. Lo scrisse in una memorabile prefazione alla “Storia della Colonna Infame” di Manzoni (Gennaio 1985, Tascabili Bompiani, Edizione Speciale per i lettori de “L’Espresso”).
Ecco perché si poneva nelle guerre di religione dalla parte della Ragione e si allontanava dalla moltitudine, come un riformista solo, contro la mistificazione, l’imbroglio, la violenza del potere (le lucciole di Pier Paolo Pasolini), la malafede, il fanatismo, la stupidità. Perche’ in lui c’era l’avversione al gregge, la spiccata ironia e scintillante autoironia pirandelliana, lo spirito di contraddizione, la paura del ridicolo.
Era di “tenace concetto” e le sue provocazioni culturali ci mancano molto.

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