Ciclismo

Di scalatori, di pastori e di poeti

29 Maggio 2019

Sulle soglie del bosco, i corridori non odono parole che dicono umane, perché di umano la salita del Mortirolo, presa da Mazzo di Valtellina, ha ben poco. Tanto più per la ventina di masnadieri di giornata andati in fuga subito dopo la partenza. Sono l’avanguardia della battaglia che si scatenerà sulle rampe verticali del Mortirolo, la montagna di Marco Pantani. Per qualcuno è sogno di gloria, per molti altri è tattica e strategia di squadra.

Sulle soglie del bosco, per di più, come immagina il poeta, piove. Piove dalle nuvole sparse che accompagnano i girini quasi dall’inizio della loro avventura rosa. Piove sulle loro bici di carbonio nerastre, piove sui caschi e sui freni a disco, piove sui cambi elettronici, piove sui vestimenti scarsi e sui freddi pensieri che la corsa schiude novella, sulla favola bella che ieri m’illuse, che oggi m’illude, o Ciccone.

Va be’, basta eh… Qui siam mica alla Versiliana, niente “mirti divini” e “ginestre fulgenti di fiori accolti” e “ginepri folti”: il “ciel cinerino” è quello della Valtellina e promette anche neve, mica “coccole aulenti”. Le cicale non cantano per Giulio Ciccone, che fa tutto da solo, o quasi.

L’avanguardia si sgrana e poi si sgretola arrampicandosi tra folla e pioggia. I ventuno diventano dozzina, e poi dieci, e poi una manciata di avventurieri. A Ciccone resiste il solo il boemo Jan Hirt.
Hirt, in tedesco, significa “pastore” e l’abruzzese Ciccone, leggendone il volto silvano, s’illude: “E andiam di fratta in fratta, / or congiunti or disciolti…”.
S’illude Ciccone di aver trovato il compagno di fuga giusto: “Jan, andiamo, è tempo di scappare…”. I due lascian gli stazzi e “vanno pel tratturo antico al piano / quasi per un erbal fiume silente”.

(Molestissimo Rapagnetta, perché non mi lasci stare?)

In fondo alla discesa, quando mancano una quindicina di chilometri all’arrivo, a Ciccone diventa molesto il pastore Hirt, che si rifiuta di dare il cambio. E Ciccone diventa Taccone. Irascibile come il suo antesignano abruzzese. Poco ci manca che tiri un lavamuso a Hirt. Ma chiamandosi come si chiama, Ciccone, non sacramenta: smadonna.

Flashback: cinquantasei anni fa, era il Giro del 1963, Vito Taccone, da Avezzano, vinse 5 tappe, quattro addirittura di fila. Il Giro lo perse a vantaggio del regolarissimo ma forse obliabile Balmamion, ma infiammò la carovana rosa con le sue intemperanti guasconate: il Lupo della Marsica, il Camoscio degli Abruzzi, a Giro concluso venne accolto nella sua Avezzano con onori, ruspanti e sinceramente cafoni – in senso etimologico, siloniano – , degni di un Capo di Stato.

Vito Taccone, fumantino, mezzo scalatore mezzo pugilatore, è stato uno dei primi divi a pedali della TV: Sergio Zavoli ne fa un protagonista quasi fisso del suo “Processo alla tappa”. In una di queste occasioni, Taccone incrocia Pier Paolo Pasolini, che ne scrive in questo modo in un articolo di “Tempo” (Le vittorie di Merckx sono scandali, 7 giugno 1969):

«Ho […] intuito, attraverso questa esperienza, ciò che è cambiato e ciò che non è cambiato nel “corpo” di un atleta, rispetto a venti-venticinque anni fa: si è radicalizzato in esso il conflitto tra realtà e irrealtà. La realtà è esistenziale, col suo bello e il suo brutto (nei corridori ciclisti – operai, contadini – prevale il bello, l’innocente, e se la coscienza di classe c’è come in Taccone, è priva di stupida aggressività): l’irreale è la cultura borghese di massa, coi suoi media. Ebbene, in Dancelli, in Taccone, figure umane in carne e ossa viene vissuto il conflitto tra questi due mondi: la loro simpatia umana è insopprimibile, a tutt’oggi, eppure qualcosa tende con violenza a sopprimerla: e loro lo sentono. Lo sentono magari limitatamente alle ingiustizie “pratiche” quotidiane. Essi non osano dire la verità (della loro situazione pratica), ma l’alludono soltanto: se la dicessero farebbero una cosa sconveniente rispetto al “video” e ai loro datori di lavoro. Un atleta ha un solo modo per realizzare pienamente la propria libertà: lottare liberamente per vincere. Le vittorie sembrano invece regolate da una volontà repressiva, che umilia i corridori. Essi sono dunque fisicamente gli stessi che venti-venticinque anni fa, mentre il loro rapporto reale con noi ha subito irrimediabilmente un ulteriore processo di alienazione e falsificazione. Merckx è un grandissimo campione perché vince indipendentemente da tutto questo. Il corpo di Merckx è più forte del consumo che se ne fa. Le vittorie di Merckx sono scandali».

Vito Taccone, il suo volto, il suo corpo, le sue parole, diventano un saggio dell’analisi antropologica che Pasolini va conducendo in quegli anni, incrociando fenomeni nazional-popolari come il Giro d’Italia, e la sua rappresentazione televisiva, o come il campionato di calcio (vedi le interviste ai giocatori del Bologna in allenamento, in Comizi d’amore).

Pedalando tra i brividi sulla strada per Ponte di Legno, Giulio Ciccone, inveisce contro il neghittoso pastore boemo e per un attimo si reincarna nel fumantino Vito Taccone. Sul rettilineo d’arrivo, il nervosismo però non lo tradisce e allo sprint ha facilmente ragione di Hirt.

https://www.facebook.com/giroditalia/videos/2351332845189320/

Ci vorrebbe, in sala stampa, o davanti alle telecamere RAI, un altro PPP per dirci qualcosa di nuovo sul volto, sul corpo e sulle parole del corridore ciclista Giulio Ciccone, ventiquattrenne chietino, miglior scalatore del Giro d’Italia.

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