Letteratura
Sanza lei non è in terra pace
Oggi è il primo Dantedì. Metto sulla mia bacheca due canzoni dei primi anni dell’esilio. La prima – in cui allegoricamente è allusa la Filosofia – è la terza canzone del Convivio e apre il Quarto Libro, l’ultimo al quale Dante abbia messo le mani. Ma esperienza personale e ripensameto teorico della stessa esperienza in Dante non vanno mai disgiunti. E qui tocca un vertice in cui è difficile distinguere l’emozione, intensissima, dell’esiliato, dalla riflessione sul predominio dell’ingiusizia sulla terra (scriverà il poema proprio per riparare a questo stato d’ingiustizia ch’è per Dante la storia, e figurandosi, come suggerisce Kadaré, il grande scrittore contemporaneo albanese, in un bellissimo saggio su Dante, il regno della Giustizia che si realizza altrove, perché “l’aiuola che ci fa tanto feroci”, e cioè la Terra, gli appare ormai come inabitabile o, meglio, vi si sente come un estraneo, un esiliato, appunto. L’intuizione, straordinaria, di Kadaré, è che Dante sia il primo grande poeta moderno che abbia cantato l’inappartenenza, la reclusione, chei chi aspira alla giustizia, sente come proprio inevitabile stato.
La seconda, se possibile, è una canzone ancora più amara, più disperata (quanti hanno mai letto la disperazione in questo perpetuamente insoddisfatto anelito di giustizia che muove la poesia di Dante?): vi si descrive la bellezza (leggiadria) di un mondo di principi civili rispettati, in cui non vengano sovvertiti i metri di giudizio delle azioni umane (si pensa al monologo di Amleto – to be or not to be – in cui ci commuovono e ci feriscono considerazioni simili), un mondo in cui non si veda l’ingiusto, il prepotente, il corrotto domanare i giusti, i virtuosi, i benevolenti. Ma una volta sognato – e Dante sogna assai spesso – questo mondo di leggiadria, ecco la pugnalata finale, l’ultimo verso che ci riconduce alla realtà: “Color ch vivon fanno tutti contro”. In margine, una nota linguistica: Dante è uno straordinario costruttore della lingua, inventore di vocaboli e costruzioni sintattiche nuove. In questa bellissima canzone, l’angoscia dell’abbandono trova parole che più intense non avrebbe potuto inventare nessun altro poeta: “io canterò così disamorato / contra ‘l peccato, / ch’è nato – in noi, di chiamare a ritroso / tal ch’è vile e noioso / con nome di valore, / cioè di leggiadria …”. Canto un mondo sovvertito, un mondo di soprffazioni, perché come ha lasciato me, Amore ha lasciato tutto il mondo, e me, cosi “disamorato” mi abbandona alla disperazione, il mondo lo consegna all’ingiustizia. Non dimentichiamoci che per Dante Amore è Dio: e muove il sole e l’altre stelle. In altre parole ci sta parlando, sta cantando, di un mondo senza Dio. Gli servirà un lungo poema di 100 canti per ritorvarlo e finalmente incontrarlo per sempre, perdersi in Lui. Questa canzone non ha “congedo”. Il discorso non si chiude ma resta aperto.
E aperto restò per tutta la vita il suo anelito di giustizia. Nel sonetto “Se vedi li occhi miei di pianger vaghi” chiede a Dio di riportare la Giustizia in Terra: “che sanza lei non è in terra pace”.
Domenico di Michelino, Dante, Firenze e i tre Regni, Duomo di Firenze
LXXXII
Le dolci rime d’amor ch’i’ solia
cercar ne’ miei pensieri,
convien ch’io lasci; non perch’io non speri
ad esse ritornare,
ma perché li atti disdegnosi e feri
che ne la donna mia
sono appariti m’han chiusa la via
de l’usato parlare.
E poi che tempo mi par d’aspettare,
diporrò giù lo mio soave stile,
ch’i’ ho tenuto nel trattar d’amore;
e dirò del valore,
per lo qual veramente omo è gentile,
con rima aspr’e sottile;
riprovando ’l giudicio falso e vile
di quei che voglion che di gentilezza
sia principio ricchezza.
E, cominciando, chiamo quel signore
ch’a la mia donna ne li occhi dimora,
per ch’ella di se stessa s’innamora.
Tale imperò che gentilezza volse,
secondo ’l suo parere,
che fosse antica possession d’avere
con reggimenti belli;
e altri fu di più lieve savere,
che tal detto rivolse,
e l’ultima particula ne tolse,
ché non l’avea fors’elli!
Di retro da costui van tutti quelli
che fan gentile per ischiatta altrui
che lungiamente in gran ricchezza è stata;
ed è tanto durata
la così falsa oppinion tra nui,
che l’uom chiama colui
omo gentil che può dicere; ’Io fui
nepote, o figlio, di cotal valente’,
benché sia da niente.
Ma vilissimo sembra, a chi ’l ver guata,
cui è scorto ’l cammino e poscia l’erra,
e tocca a tal, ch’è morto e va per terra!
Chi diffinisce: ’Omo è legno animato’,
prima dice non vero,
e, dopo ’l falso, parla non intero;
ma più forse non vede.
Similmente fu chi tenne impero
in diffinire errato,
ché prima puose ’l falso e, d’altro lato,
con difetto procede;
ché le divizie, sì come si crede,
non posson gentilezza dar né tòrre,
però che vili son da lor natura:
poi chi pinge figura,
se non può esser lei, non la può porre,
né la diritta torre
fa piegar rivo che da lungi corre.
Che siano vili appare ed imperfette,
ché, quantunque collette,
non posson quietar, ma dan più cura;
onde l’animo ch’è dritto e verace
per lor discorrimento non si sface.
Né voglion che vil uom gentil divegna,
né di vil padre scenda
nazion che per gentil già mai s’intenda;
questo è da lor confesso:
onde lor ragion par che sé offenda
in tanto quanto assegna
che tempo a gentilezza si convegna,
diffinendo con esso.
Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo,
che siam tutti gentili o ver villani,
o che non fosse ad uom cominciamento;
ma ciò io non consento,
ned ellino altressì, se son cristiani!
Per che a ’ntelletti sani
è manifesto i lor diri esser vani,
e io così per falsi li riprovo,
e da lor mi rimovo;
e dicer voglio omai, sì com’io sento,
che cosa è gentilezza, e da che vene,
e dirò i segni che ’l gentile uom tene.
Dico ch’ogni vertù principalmente
vien da una radice:
vertute, dico, che fa l’uom felice
in sua operazione.
Questo è, secondo che l’Etica dice,
un abito eligente
lo qual dimora in mezzo solamente,
e tai parole pone.
Dico che nobiltate in sua ragione
importa sempre ben del suo subietto,
come viltate importa sempre male;
e vertute cotale
dà sempre altrui di sé buono intelletto;
per che in medesmo detto
convegnono ambedue, ch’en d’uno effetto.
Onde convien da l’altra vegna l’una,
o d’un terzo ciascuna;
ma se l’una val ciò che l’altra vale,
e ancor più, da lei verrà più tosto.
E ciò ch’io dett’ho qui sia per supposto.
E’ gentilezza dovunqu’è vertute,
ma non vertute ov’ella;
sì com’è ’l cielo dovunqu’è la stella,
ma ciò non e converso.
E noi in donna e in età novella
vedem questa salute,
in quanto vergognose son tenute,
ch’è da vertù diverso.
Dunque verrà, come dal nero il perso,
ciascheduna vertute da costei,
o vero il gener lor, ch’io misi avanti.
Però nessun si vanti
dicendo: ’Per ischiatta io son con lei’,
ch’elli son quasi dei
quei c’han tal grazia fuor di tutti rei;
ché solo Iddio a l’anima la dona
che vede in sua persona
perfettamente star: sì ch’ad alquanti
che seme di felicità sia costa,
messo da Dio ne l’anima ben posta.
L’anima cui adorna esta bontate
non la si tiene ascosa,
chè dal principio ch’al corpo si sposa
la mostra infin la morte.
Ubidente, soave e vergognosa
è ne la prima etate,
e sua persona adorna di bieltate
con le sue parti accorte;
in giovinezza, temperata e forte,
piena d’amore e di cortese lode,
e solo in lealtà far si diletta;
è ne la sua senetta
prudente e giusta, e larghezza se n’ode,
e ‘n se medesma gode
d’udire e ragionar de l’altrui prode;
poi ne la quarta parte de la vita
a Dio si rimarita,
contemplando la fine che l’aspetta,
e benedice li tempi passati.
Vedete omai quanti son l’ingannati!
Contra-li-erranti mia, tu te n’andrai;
e quando tu sarai
in parte dove sia la donna nostra,
non le tenere il tuo mestier coverto
tu le puoi dir per certo:
«Io vo parlando de l’amica vostra».
LXXXIII
Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato,
non per mio grato,
ché stato non avea tanto gioioso,
ma però che pietoso
fu tanto del meo core,
che non sofferse d’ascoltar suo pianto;
i’ canterò così disamorato
contra ’l peccato,
ch’è nato in noi, di chiamare a ritroso
tal ch’è vile e noioso
con nome di valore,
cioè di leggiadria, ch’è bella tanto
che fa degno di manto
imperial colui dov’ella regna:
ell’è verace insegna
la qual dimostra u’ la vertù dimora;
per ch’io son certo, se ben la difendo
nel dir com’io la ’ntendo,
ch’Amor di sé mi farà grazia ancora.
Sono che per gittar via loro avere
credon potere
capere là dove li boni stanno
che dopo morte fanno
riparo ne le mente
a quei contanti c’hanno canoscenza.
Ma lor messione a’ bon non pò piacere,
perché tenere
savere fora, e fuggiriano il danno,
che si aggiugne a lo ’nganno
di loro e de la gente
c’hanno falso iudicio in lor sentenza.
Qual non dirà fallenza
divorar cibo ed a lussuria intendere?
ornarsi, come vendere
si dovesse al mercato di non saggi?
ché ’l saggio non pregia om per vestimenta,
ch’altrui sono ornamenta,
ma pregia il senno e li genti coraggi.
E altri son che, per esser ridenti,
d’intendimenti
correnti voglion esser iudicati
da quei che so’ ingannati
veggendo rider cosa
che lo ’ntelletto cieco non la vede.
E’ parlan con vocaboli eccellenti;
vanno spiacenti,
contenti che da lunga sian mirati;
non sono innamorati
mai di donna amorosa;
ne’ parlamenti lor tengono scede;
non moveriano il piede
per donneare a guisa di leggiadro,
ma come al furto il ladro,
così vanno a pigliar villan diletto;
e non però che ’n donne è sì dispento
leggiadro portamento,
che paiono animai sanza intelletto.
Ancor che ciel con cielo in punto sia,
che leggiadria
disvia cotanto, e più che quant’io conto,
io, che le sono conto
merzé d’una gentile
che la mostrava in tutti gli atti sui,
non tacerò di lei, ché villania
far mi parria
sì ria, ch’a’ suoi nemici sarei giunto:
per che da questo punto
con rima più sottile
tratterò il ver di lei, ma non so cui.
Eo giuro per colui
ch’Amor si chiama ed è pien di salute,
che sanza ovrar vertute
nessun pote acquistar verace loda:
dunque se questa mia matera è bona,
come ciascun ragiona,
sarà vertù o con vertù s’annoda.
Non è pura vertù la disviata,
poi ch’è blasmata,
negata là ’v’è più vertù richesta,
cioè in gente onesta
di vita spiritale
o in abito che di scienza tiene.
Dunque, s’ell’è in cavalier lodata,
sarà mischiata,
causata di più cose; perché questa
conven che di sé vesta
l’un bene e l’altro male,
ma vertù pura in ciascuna sta bene.
Sollazzo è che convene
con esso Amore e l’opera perfetta:
da questo terzo retta
è vera leggiadria e in esser dura,
sì come il sole al cui esser s’adduce
lo calore e la luce
con la perfetta sua bella figura.
Al gran pianeto è tutta simigliante
che, dal levante
avante infino a tanto che s’asconde,
co li bei raggi infonde
vita e vertù qua giuso
ne la matera sì com’è disposta:
e questa, disdegnosa di cotante
persone, quante
sembiante portan d’omo, e non responde
il lor frutto a le fronde
per lo mal c’hanno in uso,
simili beni al cor gentile accosta;
ché ’n donar vita è tosta
co’ bei sembianti e co’ begli atti novi
ch’ognora par che trovi,
e vertù per essemplo a chi lei piglia.
Oh falsi cavalier, malvagi e rei,
nemici di costei,
ch’al prenze de le stelle s’assimiglia!
Dona e riceve l’om cui questa vole,
mai non sen dole;
né ’l sole per donar luce a le stelle,
né per prender da elle
nel suo effetto aiuto;
ma l’uno e l’altro in ciò diletto tragge.
Già non s’induce a ira per parole,
ma quelle sole
ricole che son bone, e sue novelle
sono leggiadre e belle;
per sé caro è tenuto
e disiato da persone sagge,
ché de l’altre selvagge
cotanto laude quanto biasmo prezza;
per nessuna grandezza
monta in orgoglio, ma quando gl’incontra
che sua franchezza li conven mostrare,
quivi si fa laudare.
Color che vivon fanno tutti contra.
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