Letteratura
Santarossa, vi racconto la mia Metropoli
In occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo, “Metropoli” (Baldini&Castoldi), intervistiamo lo scrittore Massimiliano Santarossa, con il quale parliamo di libri, Nordest, cultura, passando da Scurati a Camus.
Massimiliano, avvicinando “Metropoli” ad altri titoli di narrativa italiana degli ultimi anni, mi viene spontaneo avvicinarlo a “La doppia mezzanotte” di Antonio Scurati, in cui lo scrittore si immagina una Venezia post-alluvione calata nel 2092 in cui i cinesi trasformano Piazza San Marco in un’arena per lotte tra gladiatori e i pochi indigeni rimasti sono costretti al ghetto. In Scurati, di fatto, non c’è redenzione per l’umanità ma soltanto disgregazione e amorali fallimenti. È così anche in “Metropoli”?
No. Scurati in quel romanzo fa opera di invenzione, crea uno schema grottesco. Metropoli è invece un romanzo distopico nel senso più puro del termine, indaga la realtà odierna, economica, industriale, finanziaria, tratta anche temi legati alla medicina, alla malattia, alla solitudine, racconta la crisi produttiva, il lavoro nei suoi aspetti più deleteri e osceni, quel lavoro che è diventato sfruttamento e distrugge la dignità personale, e porta tutto questo avanti di due decenni, al 2035, tentando di rispondere a una domanda: cosa sarà l’essere umano tra vent’anni, quando l’attuale crisi economica lascerà macerie sparse per tutta l’Europa?
L’essere umano, spesse volte nel corso della storia, ha corso il serio rischio di imbarcarsi in una direzione senza vie d’uscita: solo per citare la contemporaneità, dalla Prima alla Seconda Guerra Mondiale, dalla Guerra Fredda al post-11 settembre. Eppure, in un modo o nell’altro, la deriva non è mai stata presa in modo definitivo e irreversibile. Perché in “Metropoli”, invece, tu immagini un futuro prossimo così irrimediabilmente sfaldato e ormai privo di risalite? Non è una visione troppo catastrofista?
Un certo tipo di opera letteraria porta all’estremo i concetti, così da mettere in primo piano le paure più profonde della Persona, dell’essere umano. In questo senso Metropoli è sì un romanzo estremo, narra una deriva che è anche stata ipotizzata spesso in letteratura, ricordo per citare dei capolavori 1984 di Orwell, La peste di Camus, La strada di McCharty, o film come Blade Runner, Metropolis di Lang, ma se in quelle opere la fine del sistema e la sua mutazione erano il fulcro narrativo, nel mio Metropoli è unicamente un punto di partenza per fare i conti con una parola importantissima, la più importante per le donne e gli uomini che abitano questo pianeta: la Libertà. A quanta Libertà siamo disposti a rinunciare per sopravvivere? E quanto siamo disposti a lottare per affermare la Libertà? Metropoli racconta questo.
Sei scrittore del Nord, anzi: del Nordest. Per anni hai raccontato più di altri il Nordest, le sue genti, i suoi odori, la sua patina di onnipotenza e l’arricchimento sfrontato e illusorio. Gli ultimi dati ci dicono che il nostro territorio, assieme al Nordovest, dal 2012 ad oggi ha registrato il tasso più alto in Italia di ventenni, trentenni e quarantenni emigrati all’estero. Ciò è dato, a tuo parere, solamente da un fattore occupazionale o vi sono altri elementi che incidono nella scelta di andarsene dal Nordest, un tempo “Mecca” per meridionali e genti dell’est?
Solo nella palazzina dove io abito, su quattro ragazzi di vent’anni, se ne sono andati in quattro. Il cento per cento. Da alcune zone periferiche l’emigrazione è tornata a essere un flusso costante, enorme, una vera fuga di massa. E non è per nulla una emigrazione di cervelli, è proprio una emigrazione per fame, fame di lavoro, fame di futuro, fame di libertà appunto. Lavoro, futuro, libertà, tre concetti ormai inesistenti in Italia. Il Nordest non esiste più da venti anni circa. Quando gli industriali hanno deciso di delocalizzare la produzione e le industrie, in quell’esatto momento hanno ucciso la loro creatura. Veneto, Friuli, Trentino, sono state definite “Nordest” perché si ritrovavano in una idea industriale, mica in una realtà storica, culturale e geografica. Il Nordest stava in piedi unicamente per il fatturato prodotto. Gli industriali lo hanno creato, gli industriali lo hanno ucciso. Niente di meno, niente di più. Nel mio caso ho sempre narrato le donne e gli uomini schiacciati da quel sistema, mai il sistema; un sistema economico che ho sempre odiato, e si sa, con l’odio non si racconta nulla. Invece ho sempre amato i deboli, ho sempre amato gli sconfitti, ho sempre amato i senza voce. Ho sempre amato e raccontato quelli che padre Turoldo chiamava “gli ultimi”, quelli che sembrano perdere ogni giorno, ma che nel tempo vinceranno per purezza.
@giulio_serra
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