Letteratura

Ripartire, il manuale di Perrotta dalla “Terra Matta”

14 Giugno 2020

Riavvolgere il nastro. Da adesso e nei giorni che verranno la scena dovrà cercare di riprendere il cammino interrotto; ma trovare la cima di quel filo spezzato a marzo, tra artisti e pubblico, non sarà facile. Come un uragano la pandemia ha spazzato improvvisa i cento e mille palcoscenici d’Italia ed ora è duro ripartire, semplicemente riaprendo i botteghini, distanziando gli spettatori e con i teatranti sulle tavole quasi fossero macchine a comando. La cosiddetta normalità insomma, è lontana. Così pensa Mario Perrotta, uno dei teatranti del nostro tempo più sensibili ai cambiamenti sociali, vigile antenna dei mutamenti.

“Il teatro, credo sia ancora nella fase 1 _ dice l’attore _ riaprono le sale ma in realtà, temo, non succederà nulla. Le persone, dopo aver vissuto in casa mesi interi, non hanno di certo desiderio di andare in un luogo al chiuso con il rischio, inoltre, di contagio. E anche noi attori vorremo rientrare a teatro nella massima sicurezza: vorremo essere certi che le condizioni di riapertura non mettano a rischio la salute del pubblico, di noi attori stessi, dei tecnici e tutti gli operatori. Ci vorrà tempo… spero comunque di arrivare presto alla fase 2, per riprendere il discorso interrotto:“Della madre”, il mio ultimo spettacolo aveva debuttato a gennaio al Piccolo di Milano e stava iniziando latournée, quando ci siamo dovuti fermare”.

Uno stop che, nel caso di Perrotta, non ha voluto dire smettere di essere teatrante. Tutt’altro. La pausa forzata è servita da lievito per sfornare un progetto utile e necessario come il pane per i giorni che ci hanno preceduto. E come viatico per il prossimo futuro. Un  “Manuale di sopravvivenza” andato in scena fino a metà maggio sulle onde di RadioTre Suite, ancora visibile e da ripercorrere come un viaggio, puntata dopo l’altra sia su Raiplay, YouTube o sul sito di Mario Perrotta. Trenta puntate, altrettanti folgoranti pezzi di vita che attraversano cento anni di storia tricolore, della durata ognuna di circa un quarto d’ora, minuto più, minuto meno. Sono le “Ebiche” (sta per epoca) che hanno scandito l’emblematico avvicendarsi delle pagine di un diario. Un’autobiografia scritta da un popolano, il siciliano Vincenzo Rabito e pubblicato da Einaudi Editore con il titolo “Terra Matta”. Un diario semplice eppure profondo, specchio di una Italia spesso dimenticata e non certo da prima serata. Con “Il Manuale di sopravvivenza” (nato da un’idea del Piccolo museo del diario il progetto di Mario Perrotta prodotto dall‘Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano e realizzato in collaborazione con Einaudi, Rai Radio3 e Duel) proposto con superbo piglio teatrale da Perrotta è diventato libro aperto dove attingere per raccontare quello che siamo stati, e forse, ancora nel profondo, restiamo.

Mario Perrotta durante la lettura di “Manuale di sopravvivenza” andato in scena nei mesi di aprile e maggio su Radiotre

“Mi sono innamorato e appassionato all’autobiografia di Rabito circa quindici anni fa _ racconta Perrotta _ negli stessi momenti in cui scoprivo l’Archivio Diaristico Nazionale e i capolavori in esso contenuti. In questi anni abbiamo ragionato spesso con la sua direzione e il Piccolo museo del diario _ due enti uno filiazione dell’altro che lavorano a stretto contatto in quel di Pieve Santo Stefano in provincia di Arezzo _ sulla possibilità di fare una lettura integrale del ponderoso e meraviglioso lavoro di Vincenzo Rabito. In passato avevo fatto solo delle letture di brevi estratti in varie occasioni. L’idea è nata dalla direzione del Piccolo museo del diario che, in occasione della chiusura temporanea causa norme anti-contagio, ha pensato: se la gente non può venire al museo, allora portiamo il museo nella case delle persone; quale “pezzo” migliore di tutto il museo se non il diario di Rabito? Ci sono “oggetti letterari” straordinari nel museo, come ad esempio il Lenzuolo di Clelia Marchi, di cui forse un giorno racconteremo l’affascinante storia, ma dal punto di vista del racconto epico, il diario di Rabito resta inavvicinabile. Ho subito accettato la proposta perché stavo cercando esattamente qualcosa che avesse un legame e un senso in quella situazione di segregazione in cui ci aveva gettato il lockdown scattato da due-tre giorni”

Incredibile come le considerazioni sulla vita di un uomo che ha attraversato fino in fondo il secolo della modernità siano poi state sgranate come un rosario in radio e nella Rete. A seguire il racconto, un viaggio nel tempo, si sente come un rimosso dalle nostre coscienze che improvvisamente da quelle parole teatralmente riconsegnate al suono, viene a galla. A dirci cosa? C’è forse un monito per il tempo che verrà?

“In quei momenti ero in cerca di qualcosa che avesse un senso con il lockdown impostoci, con un tempo che nei primi giorni sembrava essere frenetico. Le persone con le quali avevo contatti dicevano di avere fretta e di non aver portato a termine gli impegni della giornata, ma in realtà eravamo tutti chiusi in casa e a me la cosa risultava inspiegabile. C’era quasi un bisogno di fare per non dirsi che eravamo costretti a stare fermi. Eravamo sorpresi e spiazzati da quello che ci stava accadendo e la reazione di noi artisti è stata mettere in rete numerosissimi contenuti, ma dall’evidente natura “spot”, contenuti che duravano il tempo della loro fruizione: eravamo tutti impegnati nell’iper-comunicazione ma quello che mancava era una progettualità, sembravamo dei criceti impazziti sulle nostre piccole ruote. A un certo punto, ho avuto l’esigenza di pensare a qualcosa di lungo, di articolato nel tempo, di “sgranato come un rosario”, come ben dice la domanda, qualcosa che segnasse la giornata, la marcasse. Il diario di Rabito era perfetto sia dal punto di vista tecnico (la sua lunghezza consentiva appunto di sgranare puntate per almeno 30 giorni) sia dal punto di vista contenutistico. Parliamo di un uomo che ha vissuto tutte le “pandemie” dello scorso secolo in prima persona. Di un uomo che, attraverso la sua storia, ci dice come il dramma nero nel quale pensavamo di trovarci, era, forse, di un nero leggermente sbiadito, grigio. Il “dramma nero”,quello vero, lo ha vissuto chi, come Rabito, ha fatto due guerre mondiali, assistito alla morte di cento milioni di persone per la febbre spagnola, ha subito vent’anni di fascismo, patito la fame vivendo nelle campagne o in una casetta cantoniera con un’intera famiglia da mantenere. Eppure Vincenzo, nonostante la “vita nera”, non ha mai perso la carica vitale. Questo era il messaggio che volevo far passare e anche il monito per i giorni che verranno.Se dovesse accadere ancora ricordiamoci che una via di uscita l’abbiamo ed è nostro obbligo perseguirla con la stessa tenacia e determinazione con cui Rabito ha attraversato l’intero Novecento”.

L’essenziale scenografia messa a punto e inventata da Perrotta durante i giorni del lockdown per il “Manuale di sopravvivenza”

Dietro le quinte delle “Ebiche”, cioè quelle puntate andate in onda dai primi di aprile sino al 6 maggio e che ciascuno può ancora fortunatamente vedere e rivedere grazie alla memoria di Raiplay e YouTube. Da uno a trenta. E’ stato un vero, autentico bricolage teatrale, a cominciare dalla scenografia. Come è stata costruita questa ideale stanza dei ricordi?

“Creare un progetto audio e video di questa portata in quelle condizioni non è stato facile. Dovevamo creare uno vero studio di registrazione ma con i mezzi di cui disponevamo in casa o in garage visto che non potevi uscire a comprare nulla: un cavetto per connettere una qualunque periferica al computer, una lampadina, un nastro di carta, una scheda di memoria. A questa impossibilità si aggiungeva il fatto di vivere a 500 metri da una zona dichiarata “rossa”, Medicina (in provincia di Bologna). I corrieri tendevano a non consegnare in questa zona, o per paura o perché credevano gli venisse negato l’accesso; alla fine ho iniziato a scrivere negli ordini la specifica “siamo fuori dalla zona rossa: potete consegnare!”. Soltanto così siamo riusciti a reperire alcuni strumenti tecnici necessari che non erano presenti tra le nostre attrezzature di compagnia o personali. Per il resto ci siamo arrangiati davvero: abbiamo insonorizzato la stanza dedicata alle registrazioni attaccando ai muri e sul soffitto coperte, lenzuola, piumini, piumoni, usando il biadesivo ma con il timore che, alla fine di tutto, avrebbe portato via con sé l’intonaco dei muri. Poi abbiamo scenografato il tutto utilizzando degli avanzi che avevamo in garage di Tessuto-Non-Tessuto: sembrava uno studio vero, di quelli cool, ma ci è costato 30/40 euro. Abbiamo fatto le riprese con due iPhone con le applicazioni giuste e abbiamo lavorato con quelle. Mi sono messo a studiarle con Elisa Cuciniello che ha curato insieme a me il progetto, e abbiamo imparato a tarare i due cellulari in modo tale che il risultato delle due ripresefosse identico dal punto di vista delle luci e dei colori. Questo ci avrebbe permesso di montare agilmente, altrimenti in post-produzione avremmo dovuto investire molte ore in correzioni. Non essendo dei direttori della fotografia provetti abbiamo dovuto studiare molto. Io so fare le luci in teatro, ma la direzione della fotografia è tutt’altra roba. Per quanto riguarda le riprese audio avevo le idee molto più chiare: sia io che Paola (l’attrice Paola Roscioli, moglie e compagna di lavoro di Mario Perrotta ndr) abbiamo realizzato spesso lunghe registrazioni in studio “casalingo” anche per la Rai.Dopo una settimana di allestimento e di prove, eravamo pronti: la prima puntata sperimentale poteva essere girata. L’abbiamo sottoposta ai nostri amici ed è piaciuta molto. Da quel momento è partito tutto il lavoro di registrazione”.

Ascoltando e vedendo le “Ebiche” si percepisce, nonostante le limitazioni imposte dal lockdown, di una ritrovata o forse mai dimenticata artigianalità del mestiere del teatrante. Ad esempio la bella sintonia trovata a distanza, puntata dopo puntata con Mario Arcari, musicista raffinato con cui collabori da tempo, che ha costruito un mondo di suoni e una originale colonna sonora in grado di guidare e accompagnare agilmente l’ascoltatore/spettatore dentro il climax della memoria.

“Messa a punto la situazione tecnica potevamo dedicarci alla parte artistica. Sapevo che il racconto era potente ma bisognava selezionare le parti da leggere facendo attenzione che fossero adatte non solo a restituire l’intero arco narrativo dell’autobiografia di Rabito ma anche a essere messe in musica. Ero, infatti, cosciente del fatto che avrei perso molto in possibilità espressive a causa del mancato rapporto diretto con il pubblico e a causa di una fisicità costretta dalle riprese: dovevo, dunque, caricare al massimo Ed è partita la telefonata ad ArcariMario, oltre ad essere un musicista poliedrico (dai dischi e i concerti con De André e Fossati, alla musica classica, dal jazz alla direzione della Notte della Taranta affiancando Mauro Pagani e poi le musiche per moltissimi spettacoli teatrali) ha un’intelligenza teatrale rara, comprende perfettamente qual è la funzione della musica in teatro o meglio: sposa l’idea che la voce di un attore sia l’ennesimo strumento con il quale sta duettando (mentre spesso i musicisti considerano gli attori cosa altra da loro. Da sempre dirigo il mio teatro e i miei testi come fossero partiture dove le parole sono pensate in sintonia con una possibile musica che ancora devo scoprire. In questa fase del processo creativo avere il supporto di Mario è sempre straordinario. Anche stavolta non è stato diverso: alcune musiche le aveva già scritte per altri spettacoli miei e le abbiamo riprese, ma la maggior parte le ha composte ex-novo su indicazioni date per telefono e questo ha reso le cose più difficili.Di solito ti aiuti con gli sguardi, con i gesti, fai la scena perché lui la possa vedere e comprendere quale sia la direzione che vuoi imboccare e invece, in questi due mesi ci siamo spesso ritrovati a “spiegarci” per telefono. Se io avevo un’idea musicale gliela canticchiavo e Mario la elaborava con la sua sapienza compositiva. In questo modo è venuto fuori un incastro perfetto, tra due voci o tra due strumenti, ma il risultato è quello che si è ascoltato”.

Mario Perrotta mentre interpreta le pagine scritte dallo scrittore siciliano Vincenzo Rabito in “Terra Matta”

Come è stato selezionato da quello che è un poderoso monumento di storie il materiale per “Manuale di sopravvivenza”? Quale è il filo con cui ha confezionato e tenuto assieme il suo personale viaggio dentro il mondo di Rabito per condividerlo poi con chi ha ascoltato e ascolterà le folgoranti puntate della durata di una manciata di minuti?

“La selezione dei brani è stato anch’esso un passaggio fondamentale. La lettura integrale del testo avrebbe comportato la registrazione di novanta puntate da quindici minuti e ci sembrava troppo. Sospettavo che a fine aprile, inizidimaggio al massimo, avrebbero riaperto tuttoe quindi sarebbe scemata quell’attenzione che la condizione di clausurariusciva a creare, come richiedeva il progetto. Quindi abbiamo stabilito la realizzazione di trenta puntate da un quarto d’ora ciascuna”. A questo punto entra in campo Elisa Cuciniello che ha curato in autonomia quasi totale la scelta dei brani da leggere. Ci siamo confrontati nella prima fase del progetto per definire insieme i criteri di selezione ma poi è stata lei a continuare il lavoro. Praticamente mi faceva trovare ogni puntata giàpronta, sono intervenuto davvero pochissime volte, quindi lascio a lei la risposta”.

E così racconta la stessa Elisa Cuciniello.

“La linea guida principale è stata di dare forza ai tanti momenti in cui la storia personale di Rabito incontra la storia mondiale: cortocircuiti di grande forza con cui il libro “Terra Matta” ci fa attraversare quasi un secolo del nostro passato con uno sguardo candido ma al tempo stesso profondamente tenace, amaramente consapevole e ironico. All’inizio non è stato semplice. Affondare le mani nei ricordi di uno sconosciuto porta anche un certo imbarazzo, se il compito è quello di dover decidere cosa “scartare”. Soprattutto per alcuni passaggi sembrava quasi impossibile tralasciare quell’incontro salvifico, quell’ennesima avventura straordinaria, quel commento tagliente ed esilarante. Di fatto però non sono stati scartati episodi fondamentali, ma per lo più abbiamo limato aneddoti già noti o descrizioni che potevano risultare dispersive per il tempo limitato della video-lettura. L’aiuto di Mario per questo è stato fondamentale: da autore e interprete nonché profondo conoscitore dell’architettura rabitese, aveva ben chiaro cosa avrebbe funzionato alla prova dell’interpretazione e quindi il “cut”definitivo di ogni “Ebica” avveniva sempre dopo opportuni confronti e considerazioni”.

Queste Memorie fortunatamente ritrovate (ora custodite dal Piccolo museo del diario con la sua collana di pagine dattiloscritte con una vecchia maccchina portatile Olivetti) e poi pubblicate da Einaudi si possono leggere come manuale di sopravvivenza nell’Italia uscita trenta anni dopo l’Unità e, attraversate le due guerre, approda alle alterne vicende della Prima Repubblica, ma Rabito chi è? Un Verga proletario come dice Rigoni Stern, un Gattopardo popolare come suggerisce Sergio Luzzato, o che?

Rabito è difficile da inquadrare _ risponde Perrotta _perchéa volte sembra davvero avere coscienza esatta di ciò che sta facendo, della sua scrittura, dell’arco narrativo che sta percorrendo. Sembra avere coscienza di essere autore per qualcuno. Non scrive per se stesso, è come se si rivolgesse a un ipotetico lettore, lo dimostra anche il fatto che nasconde queste pagine per tutta la vita, come se avesse intenzione di consegnarle a una posterità, a un lettore futuro _ non si capisce bene chi, ma forse i figli _ magari dopo la morte di alcuni protagonisti del suo diario, magari la stessa moglie di cui parla in maniera cosìdura. Chi è davvero Rabito è molto difficile capirlo, perché il linguaggio, la pochezza culturale, potrebbe far pensare a un “miracolo involontario”, come ha detto Camilleri nel presentarlo. Io, però, su questa “involontarietà” ho cominciato ad avere dei dubbi a forza di studiarlo in questi due mesi di preparazione di “Manuale di sopravvivenza”. Non so neanche se è un Gattopardo popolare perchépoco gli interessa l’epopea sociale. Lui è molto ego-centrato, sembra Candido. Ecco, possiamo dire così: se il Candido lo avesse scritto Candido stesso e non Voltaire, allora Rabito sembrerebbe Candido. Attraversa gli orrori del mondo con la sua personalissima visione delle cose ece li restituisce sotto una luce completamente diversa, originale, spiazzando e sbaragliando tutto ciò che noi, persone colte, avevamo potuto elaborare e pensare di quegli eventi stessi”.

Un’immagine dello scrittore siciliano Vincenzo Rabito da giovane che si può vedere nella stanza a lui dedicata nel Piccolo museo del diario

Ascoltando le “Ebiche” ci sono momenti in cui pare di trovarsi dentro situazioni che sarebbero state materia perfetta al cinema per interpreti come Totò o Alberto Sordi. Il primo per la sua magnifica capacità macchiettistica, l’altro per il suo essere maschera cinica e beffarda dell’italiano medio.

“Sono assolutamente d’accordo con l’accostamento tra i due grandi comici e Rabito o, almeno, con le situazioni che lui vive. Direi di più: di Totò, non prenderei solo la capacità macchiettistica, ma anche la cattiveria perché, se è vero che alcuni personaggi di Sordi erano cinici e beffardi _ ma sempre italianetti da quattro soldi _Totò, invece, come tutte le grandi maschere, è una maschera assoluta, ha poco di italiano, è una maschera cattiva, ma cattiva davvero, ben di più del cinismo raffazzonato e fanfarone dei personaggi di Sordi. Il personaggio-maschera Totò era un soverchiatore, umiliava i personaggi che di volta in volta gli capitavano accanto, le meravigliose spalle o antagonisti che gli hanno accostato: Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, Mario Castellani…Diciamo che, forse, Rabito li ha assorbiti per averli visti in televisione o al “cinematocrifo”, come avrebbe detto lui ma, in realtà, sembra quasi che Totò e Sordi si siano ispirati a quel modo di essere “italiani”: Rabito è ciò che Totò e Sordi rappresentavano, ed è proprio questo l’aspetto interessante”.

Scavando dentro il diario ha provato ad immaginare quale idea drammaturgica avesse in testa lo scrittore Rabito? A che ideale lettore si rivolgeva? Ha tenuto conto di queste considerazioni nel selezionare e mettere in scena il lavoro?

“Leggendo a fondo “Terra Matta” mi viene da pensare che l’unica linea drammaturgica che avesse in testa Vincenzo, fosse semplicemente il filo della sua esistenza. E’ incredibile con quanta precisione ricordi le cose della sua biografia, con una dovizia di particolari da narratore raffinato. Credo che, in realtà, lui seguisse solo lo sciorinarsi degli eventi nel corso del suo esistere, eventi così eclatanti che fanno di quell’arco narrativo una drammaturgia straordinaria. Sul singolo episodio, sì, ha un’idea molto chiara di drammaturgia, di come condurci verso l’apice per poi svelarci la cosa, ma sull’arco narrativo generale credo che abbia semplicemente seguito il corso della sua vita. Ha in testa con chiarezza un ipotetico lettore, lo fa vedere quando dice per esempio: “Guardate un poco che cosa fa quella quella matta di mia moglie o di mia suocera”, si rivolge proprio a noi. Quindi non si tratta di un’autobiografia in solitaria, non è una confessione a se stesso ma immagina che qualcuno debba leggere in futuro il suo diario. Ho pensato che i primi fruitori del diario, nella sua testa, fossero i figli alla sua morte e alla morte della moglie. Nel mettere in scena il mio “Manuale”, ho eliminato tutti gli episodi che in qualche maniera non raccontassero il loro tempo, ho lasciato che a guidarmi fosse il legamecon gli eventi della grande storia perché volevo fornire agli spettatori un ancoraggio forte con gli eventi a tutti noi noti. Volevo che le persone, ascoltando, riuscissero a immaginare come erano vestiti i protagonisti di quegli episodi in quel momento storico _ inizi del ‘900, _in piena Grande Guerra, nel ventennio fascista, nell’epoca repubblicana e poi nel boom economico. Volevo che la gente potesse farsi un suo personalissimo film e quindi, come Iinea drammaturgica ho scelto di seguire quella di Rabito, cioè la cronologia deglieventi, facendo selezione di tutto ciò che non era in qualche maniera ancorato al divenire del tempo. Quindi, per esempio, l’avvento della televisione per me era fondamentale perché segnava un tempo:raccontava di un’Italia che si stava preparando a cambiare e in maniera profonda con il boom economico”.

https://www.youtube.com/watch?v=id_JeLSt3_k

Impossibile non parlare della lingua di questo diario. Un italiano innervato di umori e suoni popolari, ricco di parole inventate e inedite, carambolate dal dialetto eppure formidabili nel descrivere un sentimento, una emozione come un giudizio. Ha svolto un lavoro di immersione totale tra quei sostantivi e verbi impossibili, trovando gli accenti giusti per far risuonare le parole di Rabito come se la lingua fosse un originale strumento musicale per leggere e interpretare il pentagramma dei fogli battuti a macchina. Una sfida per niente scontata per un attore.

“La lingua di Rabito è il punto di forza centrale del diario. Tutto ciò che lui ci racconta lo abbiamo letto anche in altri bellissimi contesti autobiografici _ in altri diari o in molti rapporti epistolari _ ma non con una scrittura così. È incredibile che un uomo analfabeta abbia potuto creare una scrittura di questa potenza dal nulla. Inoltre, se ci si fa attenzione, lungo i vent’anni in cui scrive il diario si può scorgere un’evoluzione, la lingua di Rabito “migliora” assecondando meglio le sue intenzioni narrative. Cambia modo di scrivere nel tempo mantenendo però fede a questa invenzione straordinaria che è appunto il “rabitese”: pescando a piene mani dal dialetto e da quel tentativo di italianizzare il dialetto non fa che creare una lingua teatralmente potentissima. Io ho sempre detto che i dialetti di ogni parte del mondo, _ non le lingue nazionali ma proprio i dialetti _ sono la grammatica delle nostre emozioni. Ognuno di noi vive le sue emozioni nel suo dialetto, perché esso è la lingua della terra, la lingua delle viscere”. Vincenzo Rabito fa esattamente questo, crea una lingua, una grammatica emozionale di Rabito: entrare dentro la sua lingua inventata è stato il lavoro piùdifficile. Lavoro da anni con i dialetti, da sempre scrivo in dialetto ma si tratta di “lingue” codificate che hanno una matrice forte dentro le lingue neolatine. Rabito invece crea una lingua tutta a sé, non ci sono più principali, coordinate, relative, i “che” vengono sprecati a inizio di ogni frase.È un’altra grammatica, è un’altra analisi logica che devi fare. Nel testo si legge un’evoluzione e credo che la stessa si scorga anche nelle “Ebiche” realizzate da me: dopo le prime due, entro sempre di più nel linguaggio e sparisce lo sforzo, perché ormai la fusione con quella materia ha avuto inizio. Un altro limite importante è stata la fisicità, ero costretto a mantenere sempre le stesse distanze dal microfono affinché la voce non si impoverisse di dinamiche, ero costretto a stare fermo, potevo agitare le mani ma con moderazione, in alcune “Ebiche” è palese il mio desiderio di “dare corpo” ad alcune parole ma dovevo placarlo. Alla fine di tutto il percorso, però, ho dovuto fare l’operazione inversa: dopo la trentesima ebica ho dovuto sforzarmi di non parlare come Rabito anche nella vita”.

E ora siamo alla Fase 2. Mario Perrotta aveva nei fatti appena debuttato in palcoscenicocon una produzione importante, il secondo atto della trilogia sulla famiglia. Dopo l’intenso “In nome del padre” è la volta “Della madre” che ti vede in scena con Paola Roscioli. Anche in questo episodio continua la collaborazione alla drammaturgia con Massimo Recalcati. Cos’è questa “Madre” e come si intreccia con il “Padre” e in futuro con i “Figli”?

“Vorrei partire da una premessa importante per raccontare il progetto dedicato alle famiglie: dal mio punto di vista il teatro deve occuparsi di ciò che non funziona, di ciò che è patologico, che è eccentrico, non della normalità. Quindi non ho indagato su madri e padri che sanno fare il loro mestiere ma mi sono concentrato su quella parte, percentualmente importante, di genitori “storti”. In questo percorso è stato basilare il supporto scientifico di Massimo Recalcati che alle relazioni familiari ha dedicato gran parte del suo lavoro. Se con “In nome del padre” ho portato in scena i “padri assenti”, con “Della madre” invece, ho dato corpo e voce alle “madri onnipresenti”. Non è un caso che il capitolo centrale della trilogia sia dedicato alle madri: noi italiani siamo figli di una religione cattolica vissuta in modomadre-centrica, madonno-centrico per cui la madre, volenti o nolenti, è il fulcro di tutta la “questione familiare”. Le madri “storte” che metto in scena sono onnipresenti, sono presenze asfissianti, angoscianti, ragione e fine dell’esistenza dei propri figli, si pongono e propongono per tali. Ne vengono fuori, nel caso dello spettacolo, figlie che escludono dalla loro vita quei pochi coniugi che vorrebbero adempiere al loro compito di padri. Ribadisco: sto parlando di una parte delle madri italiane, quelle madri che vogliono essere, o peggio, accettano di essere considerate “intoccabili come la Madonna, infinitamente madri”. Ecco: io per tali le ho messe in scena. Si tratta di madri che non pongono un termine al loro compito, sono madri per sempre e quindi anche i figli saranno figli per sempre. E così capita spesso che, nella nostra società, i figli adulti, vaccinati e sposati, abbiano ancora come unico riferimento esistenziale “la mamma”. Il confronto non avviene dunque tra coniugi ma “con la mamma” e questo è un problema serio, culturale: con “Della madre” volevo che questo tema venisse fuori. Ma essendo un problema molto più urgente, bruciante, assoluto rispetto all’assenza dei padri, ne è venuto fuori uno spettacolo molto più secco, forse anche assolutistico, a tratti, e me ne prendo la responsabilità. Non ho concesso quasi nulla a queste madri. Insomma, è un po’ come dicevo per Totò e Sordi: le mamme sono come Totò, sono personaggi tragici, assoluti; i padri invece sono un po’ come Sordi: omuncoli. (Per la terza volta sottolineo: quei padri “storti”e quelle madri “storte”; per fortuna altrettanti genitori non lo sono). Le madri assolute, tragiche, comiche nella loro tragicità, sono il controcanto dei padri assenti raccontati nel primo capitolo della trilogia: queste coppie “fuori centro” saranno, ovviamente, coloro che producono i figli di cui mi occuperò l’anno prossimo. A inizio stagione 2021-22 debutteremo con il terzo capitolo della trilogia, “Déi figli”:il titolo non contiene una preposizione articolata ma si riferisce proprio all’essere divino, a essere divinità stanziali in casa. Si parlerà, dunque, di quei figli che non smettono mai di esserlo e stanziano in casa fino ai 40 anni divenendo croce e delizia della vita familiare, fulcro malato di ogni relazione casalinga. Magari si tratta di figli che lavorano ma che preferiscono stanziare a casa dei genitori e spendere i soldi guadagnati per sé e i propri divertimenti, perché al resto ci pensano la mamma e papà. Sono i famosi “bamboccioni” di Padoa-Schioppa: all’epoca la dichiarazione «mandiamo i ‘bamboccioni’ fuori di casa» suscitò molto scalpore, poiperò le statistiche e le indagini sociologiche dichiararono con forza che lo stanziare dei figli in casa dei genitori, fenomeno tutto italiano, non era giustificato dall’assenza del lavoro. Diciamo che il mancato impiego lavorativo sembra, in molti casi, una “scelta programmatica”, una scelta di comodo. Io credo che chi vuole dare dignità alla propria esistenza portando uno stipendio a casa e pagandosi un affitto per conto proprio, il modo per raggiungere l’obiettivo lo trova, anche iniziando da un lavoro non qualificante e non in linea con il proprio percorso di studi”.

In questi incerti tempi di pandemia il teatro potrebbe aiutare a capire e riflettere sul perché la società contemporanea è costretta a confrontarsi con qualcosa che percepisce come un pericolo indefinibile e sfuggente ma che avverte anche con ancestrale paura?

“Il teatro probabilmente avrà una fioritura di drammaturgie dettate dal momento che stiamo vivendo: alcune saranno necessarie e brucianti,altre meno, comeè sempre accaduto. I momenti drammatici della storia hanno sempre prodotto cultura perchénoiartisti siamo quelli che aiutano il resto della società a riflettere su ciò che ci è accaduto e anche a premonire ciò che potrebbe accadere ociò che accadrà. Oltre a “far divertire la gente”, come superficialmente ha detto il nostro Presidente del Consiglio, abbiamo una funzione sociale ben più alta: siamo la cura della mente. Fino ad oggi abbiamo pensato alla sacrosanta cura del corpo perché era l’urgenza, ma adesso ci sono le menti che sono in disequilibrio forte. Gli psicologi, gli psicanalisti e gli psicoterapeuti sono la cura delle patologie della mente ma il mantenimento del benessere della mente, invece, lo garantiamo noi artisti perché siamo il bello, siamo il bello necessario _ non solo godimento estetico, quindi _ siamo il bello che fa riflettere, che fa pensare, che tiene vivo il cuore, le emozioni, i sentimenti. A noi non si può rinunciare e quindi, in qualche maniera, tutte le pandemie della storia hanno prodotto un rinascimento culturale perchéè proprio in quei momenti che gli artisti sono chiamati a rispondere al bisogno di salute dei nostri pensieri,delle menti e degli spiriti. E non credo che ci sia una particolare diversità tra la percezione dell’emergenza Covid e le altre pandemie o gli altri drammi della storia. Forse quella “paura ancestrale” della domanda si è scatenata tutte le volte che siamo stati di fronte a qualcosa che ci aveva privato della possibilità di decidere, che aveva preso in mano il timone della nostra esistenza in maniera dominante, preponderante. Il Coronavirus ha messo tutti nella stessa condizione così come fa una guerra, come fanno le crisi economiche violente. Non si è salvato nessuno e quindi quella paura ancestrale è scattata come in ogni emergenza pandemica e non so se sia legata all’insidioso e invisibile di questo virus. Il Teatro, infine e però, potrà svolgere la sua azione salvifica per lo spirito solo quando potremo tornare gomito a gomito, senza distanziamento sociale, perché solo in quel caso potremo tornare a fare sano erotismo tra scena e platea, vibrando per “simpatia” tutti insieme, coordinati, come un’orchestra silenziosa di anime: questo è il miracolo che si avvererà ogni sera in teatro a patto di poter tornare a toccarsi”.

Mario Perrotta nella stanza dedicata a Vincenzo Rabito nel Piccolo museo del diario di Pieve Santo Stefano  (foto Luigi Burroni)

 

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