Letteratura
Rileggere Dante, oggi
Significato letterale e significato metaforico sfuggono sembra, oggi, ai più dei lettori. Cerchiamo di orientarci, rileggendo commenti e riflessioni su Dante, rileggendo, anzi, lo stesso Dante. Tre anni fa, lessi, sul sito dell’IBS, il commento risentito di un lettore, che si autodefinisce “frustrato”, dopo avere letto la Conversazione su Dante del poeta russo Iosip Mandel’štam, perché la giudica incompresibile. La sicurezza e la fermezza della condanna mi spinsero a rispondere punto su punto alle sue osservazioni. Siamo nel 2021, ed è dunque appena cominciato l’anno dantesco. Sette secoli dalla sua morte. Ripubblico, qui, per questo, quelle mie osservazione: mi paiono quanto mai attuali. E’ di giorni fa la notizia che un gruppo di fanatici moralizzatori della società hanno chiesto alle autorità scolastiche degli Stati Uniti di togliere da ogni ordine d’istruzione, dalle primarie all’Università, la lettura e lo studio dei poemi omerici, perché opere di uno scrittore razzista. Ora, a parte l’aberrazione di giudicare con le idee attuali un’opera del passato, nata da un contesto politico e sociale diverso, colpisce nella richiesta l’incapacità di leggere la pluralità di significati di un’opera letteraria. Tutto letto e spiegato alla lettera. Come se la lettera dicesse oggi ciò che diceva allora. E come se bastasse la comprensione della lettera per comprendere un’opera letteraria. Ma non solo. Perfino nella lingua quotidiana, nella quotidiana comunicazione tra le persone, la sola lettera non basta a rendere conto di ciò che ci si dice l’un l’altro. “Ma che? Ti gira il cervello?” Chi lo chiede mica vede il cervello dell’interlocutore girare davanti a lui. Oppure: “Mi sa che brucio”. Non credo che chi parla così voglia che qualcuno gli getti addosso un secchio d’acqua. Sta semplicemente insinuando di avere forse la febbre. Gli esempi possono essere molti, moltissimi. Ma se questo accade nel linguaggio quotidiano, quanto più complesso sarà il rapporto tra la lettera delle parole e il loro significato metaforico in un’opera letteraria? Ecco: l’abbiamo detto. Quando si parla, si parla spesso per figure, per traslati, cioè per metafora, parola greca che significa appunto traslato, trasporto. Tanto è vero che si chiamano così oggi i trasporti in Grecia, treni, tram, autobus. Figuriamoci allora quanto ancora più figurato sia il linguaggio dgli scrittori, dei poeti. A cominciare, appunto, dalla Divina Commedia: fin dal primo verso: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. La vita mica è un cammino. Eppure la frase ormai è addirittura proverbiale. Ma non basta. Rendersi conto che il linguaggio degli scrittori dice altro rispetto alla lettera di ciò che si legge, è solo il primo passo per la comprensione di un’opera letteraria. Poi dobbiamo calare l’opera nell’epoca in cui fu scritta, e conoscere il significato delle parole in quell’epoca, spesso le parole con il tempo cambiano di significato. Restiamo all’esempio di Dante. Un sonetto famosissimo, collocato poi da Dante nella Vita Nova, verrebbe oggi totalmente frainteso se lo leggessimo attribuendo alle parole il significato che hanno oggi. E’ il sonetto che comincia “Tanto gentile e tanto onesta pare”. Ora, quasi nessuna delle parole di questo verso significa oggi ciò che significava nel Duecento. Gentile significa nobile, onesta significa degna di onore, e pare significa appare, compare, non “sembra”. Dunque: Tanto nobile e così degna di onore appare, ecc. , con tutto quel che segue. Tant’è vero che proprio giocando su quest’ambiguità, su questo mutamento di significati, Gabriele D’Annunzio, nel 1921, giusto un secolo fa, in cui si celebrava anche allora il centenario della morte di Dante, il sesto, allora, come oggi il settimo, ne fece una divertente parodia:
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Tanto genitle e tanto onesta pare
la donna altrui quand’ella mi saluta,
ch’ogni lingua deven tremando muta
e gli occhi non la smetton di guardare;
ella si va, sentendosi laudare,
benignamente di niente vestuta,
e par che sia una cosa venuta
come t’ha fatto mammeta a mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la trova,
che dà per gli occhi una dolcezza al cuore,
che intender non la può chi non la prova;
e par che dalle sue labbia si muova
un spirito soave pien d’amore
che va dicendo all’anima: riprova.
Ecco il sonetto originale:
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mòstrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ‘ntender no la può chi non la prova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: «Sospira!»
Basterebbe questo solo esempio a far comprendere quanto complesso sia sempre l’accostamento a un’opera letteraria, tanto più se poetica. La stessa parodia dannunziana non si comprende né si apprezza appieno se non in riferimento ai molteplici sensi del testo originale.
Si potrebbe qui aprire un altro discorso: fino a che punto, cioè, sia legittima una lettura che travalichi la lettura filologica del testo, vale a dire ciò che si suppone il poeta abbia voluto veramente dire. Ovvio che l’interpretazione corretta del testo è il punto di partenza necessario e ineliminabile. Ma perché dovremmo limitarci alle ristrette condizioni in cui il testo è nato? Lo stesso poeta non può figurarsi quanti altri significati un lettore possa trovare nel suo testo, significati asi quali magari non ha nemmeno pensato. L’intenzione dell’individuo che scrive è solo una delle fonti del testo, apparentemente estranei. La lingua trattiene in sé significati che non necessariamente lo scrittore, il poeta, vuole o è consapevole di esprimere, e tuttavia li esprime. Come osserva acutamente Émile Benveniste, “à la différence du langage ordinaire le langage poétique fait voir les choses en se faisant voir lui-même.” (Baudelaire, Limoge, 2011, pag. 46), e cioè: a differenza del linguaggio ordinario il linguaggio poetico fa vedere le cose facendo vedere sé stesso. E’ il linguaggio stesso l’oggetto della poesia. Nel senso che qualsiasi significato non è dato in riferimento a qualche dato esterno al testo, ma è il dato esterno stesso che si può ricavare solo da ciò che dice il testo. L’evocazione, l’associazione, anche inconscia, anche diversa in ogni lettore, e diversa perfino da parte dello stesso poeta in momenti diversi della lettura del proprio testo, anzi addirittura durante la stessa scrittura del testo, il poeta può cioè ritornando sul testo ri-scoprire sensi che la prima stessura non gli aveva rivelato. Allora, andiamoci piano con la lettura ingenua della poesia, con la poesia che deve capirsi subito, se no non è poesia. Anche la più semplice delle poesie, la più immediata, pretende un’attenzione almeno altrettanto intensa a quella del poeta nel momento in cui la scriveva. Pianto antico di Giosue Carducci non è un lamento per la perdita del figlio. E’ anche un lamento per la perdita del figlio. Ma già il titolo dice altro, aggiunge qualcosa. E perché il ricordo del figlio è associato al fiore rosso del melograno? Perché il pianto è detto antico?
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L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,
nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.
Tu fior della mia pianta
percossa e inaridita,
tu dell’inutil vita
estremo unico fior,
sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.
E perché quest’andamento da canzonetta? Una ninna nanna? Una melodia infantile? I “bei vermigli fior” del melograno ritornano più volte. Sono “il fior della mia pianta”, il fiore unico, estremo dell’inutil vita, e fa rima con calor e con amor. Ce n’è già su cui avventurarsi a intessere figure, ricordi, riflessioni. E questa è una poesia semplice, breve. Figuriamoci un poema come la Commedia. Perché dovrebbe risutarci immediatamente comprensibile? E perché immediatamente comprensibili le riflessioni di un altro poeta, ch’è per di più di un altro paese, di un’altra lingua, che “conversa” come con un amico con il grande assente? L’assenza, la lontananza, e dunque la difficoltà del contatto, non fanno anch’esse parte di questa conversazione? E davvero pensiamo che spiegare una poesia ne esaurisca il significato? E – anzi – e tremo a scriverlo – davvero pensiamo che anche nella nostra vita quotidiana tutto sia chiaro, spiegabile, e che dunque un poema che parla della vita debba essere anch’esso chiaro, spiegabile, e chiaro spiegabile qualunque osservazione, qualunque conversazione sul poema? Davvero racchiudiamo la nostra vita e l’opera della nostra vita in così piccolo cerchio? Mi vengono in mente le parole dell’arcangelo apparso in sogno a Goffredo di Buglione, nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso:
In che picciol cerchio e tra che nude
solitudini è chiuso il vostro fasto!
Ecco le mie osservazioni al lettore perplesso insoddisfatto e frustrato.
Risposta a un perplesso insoddisfatto e frustrato
Riflessioni intorno alle perplessità di un lettore riguardo alla Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam
Che cosa rispondere a un lettore insoddisfatto, anzi frustrato dalla lettura di Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam?
Ecco la sua “recensione” sul sito IBS:
“Libro difficile. Insolito. Molto personale. Che cosa rimane dopo la lettura? Molta insoddisfazione. Uno stato di quasi frustrazione. In generale. Forse qualche idea su cui riflettere giustifica la fatica e il tempo consumato: 1. << Leggere Dante è prima di tutto un lavoro interminabile, che a misura dei nostri successi ci allontana dalla meta>> (43) 2. << La Divina commedia non tanto sottrae tempo al lettore, quanto piuttosto glie ne fa dono [?]>> (54) 3. << A volte Dante sa descrivere un evento in modo tale che di esso non rimane assolutamente nulla. Per far ciò egli usa un procedimento che vorrei chiamare metafora eraclitea [?]>>(75) e più avanti << A una domanda diretta, senza preamboli, su cosa sia la metafora dantesca, risponderei che non lo so, perché della metafora è possibile dare solo una definizione metaforica [?]>> (116) 4. << È impensabile leggere i canti di Dante senza volgerli al presente >>.(79-80) Sulla traduzione: non sempre felice, anzi farraginosa, incomprensibile. (89) E infine ritengo che dovrebbe essere vietato per legge fare un prodotto come questo. Dico un prodotto che a una bella – perché semplice – copertina aggiunge un testo le cui pagine non si possono voltare perché se lo fai ti rimangono in mano. È semplicemente un’indecenza! E poi, ancora: la prima di copertina del testo pervenutomi non è la medesima in mostra sul sito di IBIS e che ho ordinato! Due copertine, di cui una solamente per ‘adescare’?! p.s. il voto è basso soprattutto per il manufatto.
Vincenzo Esposito
28/12/2015 14.58.14”
Domenico di Michelino, Dante e i tre regni
Va dato merito a Vincenzo Esposito di motivare la sua insoddisfazione. Ma sono proprio le motivazioni a lasciare perplessi. L’attacco è identico alla bella recensione di Claudio Napoli, Università di Pisa, Settembre I: La Divina Commedia nella Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam. “La Conversazione su Dante è un’opera di difficile lettura. Per meglio dire, è un’opera di difficile classificazione”. Ecco, Esposito doveva partire da una ricerca sul web e avrebbe trovato questa recensione, che gli avrebbe spiegato il suo disorientamento. La critica dantesca non è una passeggiata, né la “spiega” di un manuale scolastico. Anche una singola pagina di Auerbach è difficile. Per esempio il bellissimo saggio sulla “figura”, in cui si discute sull’allegoria, e si precisa che il termine allegoria è troppo generico, che già Dante lo suddivide e precisa meglio nella lettera a Can Grande della Scala, e Auerbach aggiunge dunque che sarebbe preferibile usare la categoria di figura, usata nell’esegesi biblica medievale. L’agnello è figura di Cristo, ma non cessa per questo di essere anche figura di sé stesso. Nella Commedia tutto è figura di altro, ma è anche, alla lettera, ciò che si racconta. Le frasi che Esposito cita dalla conversazione mandelstamiana e che addita come incomprensibili rientrano in questo duplice binario della significazione concettuale e poetica. Esposito doveva sapere in anticipo che Mandel’štam è poeta, è anzi un gradissimo poeta, ma lo è in maniera molto particolare, partecipa al movimento degli acmeisti russi, ne sviluppa, però, una propria individuale reinvenzione. Ciò che scrive, anche quando non scrive poesia, rinvia sempre a un significato altro da quello che è detto. Sembra quasi conoscere la poetica indiana del dhvanya, secondo la quale nella poesia il significato sta non in ciò ch’è detto, ma in ciò che non è detto, un sottotesto o, meglio, un pre-testo, che il lettore, o l’ascoltatore, devono scrutare al di sotto del senso esplicito delle parole. Del resto la poesia russa, direttamente o indirettamente, ha legami consapevoli ma anche inconsapevoli con la poesia orientale. Colpisce, nel lettore napoletano, l’incomprensione di questa frase del poeta russo: “Leggere Dante è prima di tutto un lavoro interminabile, che a misura dei nostri successi ci allontana dalla meta”. Mandel’štam dimostra qui di avere, invece, profondamente inteso il senso e lo spirito della Commedia, un poema i cui molteplici sensi non si esauriscono con una spiegazione, ma che anzi ogni spiegazione accresce di nuovi sensi il passo che si legge, e così all’infinito, in un rapporto continuo, e personalissimo, bidirezionale, tra poeta e lettore. La prima spiegazione, o il primo chiarimento di una “figura”, non ne esaurisce, infatti, il senso, ma apre la via a una serie interminabile di altri sensi. La lettura, qualunque lettura, della Commedia, è solo uno dei possibili modi di leggerla: aristotelicamente, tutte le potenziali altre letture in essa contenute, dovranno attuarsi in successive, molteplici e mai conclusive letture. In realtà qui il poeta russo sta parlando, non tanto di Dante, o non solo di Dante, ma della sua ossessione di una vita: la poesia. Che a Esposito sfugga questo carattere della lettura di un poeta, lo dimostra un’altra frase da lui citata come incomprensibile: “A una domanda diretta, senza preamboli, su cosa sia la metafora dantesca, risponderei che non lo so, perché della metafora è possibile dare solo una definizione metaforica”. Tra parentesi quadre Esposito colloca un punto interrogativo. Ma che cosa c’è d’incomprensibile in questa corretta definizione della metafora? In greco moderno la parola metafora indica i mezzi di trasporto. La lingua parlata, a volte, capisce il linguaggio meglio di qualunque critica. La metafora è in effetti un trasporto, i latini dicono traslato, e cioè un senso che rinvia a un altro senso, ma non a un altro senso preciso, bensì a una schiera, a un ventaglio di sensi, dei quali nessuno è quello ultimo, ma tutti rinviano a un senso altro, e per spiegarlo, qui, io sto usando una metafora, proprio come afferma Mandel’štam, che “della metafora è possibile dare solo una definizione metaforica”. Che la spiegazione di una metafora stia in tutte le metafore successive, innumerabili, contenute nella metafora iniziale, è l’assunto principale della “conversazione” (e non saggio) del poeta russo. Quando dico “brucio d’amore” non sto certo dicendo che sto prendendo fuoco, e già questa è un’altra metafora, né che sono pazzamente innamorato, e “pazzamente” è un’altra metafora, o che mi consumo dal desiderio, altra metafora ancora, e così via. Che poi l’espressione sia diventata luogo comune e perfino banale dimostra solo la forza che possiede una metafora, al punto di rendersi comprensibile, senza essere specificata, perfino nel linguaggio quotidiano. Petrarca chiama “luci” gli occhi di Laura. Noi stessi, nel linguaggio quotidiano, diciamo di qualcuno o di qualcuna, che i suoi occhi sono “luminosi”. Ma vogliamo con questo dire solo che diffondono luce, sono pregni di luci (altra metafora!)? La luce è immagine dai molteplici e profondi significati. Perfino di salvezza, per un credente: la luce della salvezza. E tali appaiono a Dante gli occhi di Beatrice. Per Petrarca, anche lui credente, ma il cui amore non ha nulla di salvifico in senso religioso, la luce rinvia a un altro tipo di salvezza, o addirittura a tutti i tipi di salvezza. La conoscenza di sé stesso, tanto per cominciare. Ovvio che in questa poesia entrano di prepotenza anche espressioni e figure del linguaggio religioso. Proprio dall’esempio del Petrarca, che a sua volta si confronta sia con lo Stil Novo sia con gli amatissimi poeti provenzali, nasce anzi la trasformazione dell’innamoramento e poi dell’amore, come processo di un culto iniziatico. E’ stato facile denigrare il petrarchismo per il proliferare di poeti mediocri (ma ce ne sono anche di altissimi!) che hanno fatto uso e abuso delle metafore petrarchesche. Ma basterebbero i sonetti di Shakespeare o le poesie di Donne e su su le corrosive metafore di Baudelaire o di Rimbaud o gli enigmi di Mallarmé a riconoscere nel modello petrarchesco l’abissale metafora di quasi tutta la poesia europea. Non vi sfuggono nemmeno i contemporanei, Eliot meno di altri. O il nostro Montale. “Meriggiare pallido e assorto” riecheggia, perfino nel ritmo, un famoso, e bellissimo, sonetto del Petrarca: “Solo e pensoso, i più deserti campi”. Scriveva, poco prima, qualche rigo sopra la frase citata riguardo alla metafora, Esposito, citanfo la Conversazione: “A volte Dante sa descrivere un evento in modo tale che di esso non rimane assolutamente nulla. Per far ciò egli usa un procedimento che vorrei chiamare metafora eraclitea”. Di nuovo un punto interrogativo tra parentesi quadre. Che cosa c’è d’incomprensibile? Eraclìto è il filosofo del perenne fluire delle vicende e delle cose, in apparente contrasto con la permanenza dell’Essere parmenidea. Ma sono invece le due facce di uno stesso problema: la realtà che ci appare mutevole e sempre in movimento ha forse radici in una sostanza, o evento, immutabile. I filosofi cosiddetti presocratici cercavano il principio unico che tiene insieme la molteplicità del mondo e forse dei mondi (Newton e Einstein non cercano niente di diverso). Ma lo cercavano non già in un principio astratto, bensì nella concretezza della materia. Per esempio, l’acqua, per Talete. O i quattro elementi originari, acqua, terra, aria, fuoco, per Empedocle. O gli atomi, particelle indivisibili, per Democrito. E per loro è materia anche il linguaggio. Se ne ricorderà Lucrezio. Ma anche Aristotele, che fa tesoro delle loro ricerche naturalistiche. Mandel’štam si ferma al significato di flusso, di corrente. Ma proprio perché in questo fluire vede l’inesauribile moltiplicarsi dei sensi. E di nuovo, parlando di Dante, sta parlando della poesia. E, senza aver letto Auerbach (il saggio Figura fu pubblicato più tardi) dice quasi le stesse cose. Ma non dimentichiamo che Roman Jakobson era russo e che il Formalismo del Circolo di Praga, da lui fondato, ha dunque radici russe. Da questa costola nascerà lo Strutturalismo, che, però, in parte, ne sterilizza la carica eversiva, la fecondità critica allusiva. Possiamo fermarci qui. Le altre frasi citate come stralunate e incomprensibili, si chiariscono facilmente, esercitando, appunto, le nostre capacità di leggere le metafore, e lo scoglio che il lettore incontra a comprenderle è l’ostacolo che sempre incontra chi si nega a penetrare il molteplice della poesia. Il lettore napoletano non si scoraggi, è in buona compagnia. Galilei, fervente ammiratore dell’Ariosto, non amava il Tasso, gli riusciva, appunto, incomprensibile. L’equilibrato, armonioso mondo ariostesco gli pareva abbandonato per un modo confuso, inafferrabile, in-significante. In realtà proprio il Tasso avrebbe dovuto fargli capire quanto d’incommensurabile, incomprensibile, sfuggente, molteplice si celi anche dietro la chiarezza dell’Ariosto. Quanto d’ineffabile dietro le immagini trasparenti di Raffaello. Galilei critica anche il linguaggio del Tasso. Sofronia è condotta nuda al patibolo e si vergogna. Tasso scrive: “Raccorse gli occhi”. Immagine bellissima, questo ritrarsi degli occhi dalla nudità visibile per nascondersi nell’intimità del pudore. Ma Galilei non la capisce, ed esplode: “E che? Le eran caduti?” Prende la lettera, senza capirne il senso metaforico. Ma se non afferri la metafora, perché leggi la poesia? Anzi, perché ti occupi di letteratura? Perfino gli scrittori che programmaticamente dicono di attenersi al reale non possono sfuggire all’ambiguità letteraria. Chi è Madame Bovary? C’est moi, dichiara Flaubert. Ah, sì? Allora non è solo la povera donnetta di provincia che ambisce a un’esistenza diversa, più nobile, più acclamata? Eh, caro Galilei, caro Esposito, la poesia è sempre altro da quello che apparentemente dice. E lo è anche la critica della poesia, quando si confronta con testi dell’ampiezza e della complessità della Commedia. Ma fosse stato un sonetto di Shakespeare le cose non sarebbero state diverse. Per non parlare del suo teatro. Chi è Amleto, chi Lear, chi Macbeth? E che vuol dire Amleto quando confessa all’amico Orazio che il suo cuore è malato (ill)? O Macbeth quando dice di sentirsi scorpioni nel cervello? O Lear, quando proclama che la natura è ingrata? Per correggersi subito: la tempesta che lo assale e lo fustiga, non è sua figlia, non può essere accusata d’ingratitudine. Chi non è disponibile all’avventura di penetrare dentro mondi molteplici, interminabili, innumerabili, si tenga lontano dalla poesia e dalla letteratura. Non è il mondo della logica. Non è nemmeno il mondo dell’irrazionale, come qualcuno suggerisce, per salvare capra e cavoli. Si ha un’idea molto ristretta della Razionalità se la si delimita nella Logica. La Logica è solo una parte, anzi uno strumento, della Ragione. Aristotele, infatti, la chiama appunto strumento, organon. Ma la Ragione ha sguardo più vasto (metafora!). E sarebbe impossibile senza il linguaggio. La razionalità della poesia sta proprio qui, nel fatto che è linguaggio. Non che usa il linguaggio, anche la scienza lo usa, ma che è essa stessa linguaggio, solo linguaggio. Lucrezio lo capisce benissimo e lo canta divinamente. Metafora anche l’attacco del poema che invoca la Natura sotto la figura dell’alma Venus, Venere nutrice, generatrice. Chi lo direbbe? Il poeta della scienza che fonda la scienza della poesia. Non è un gioco di parole. E’ proprio così, nel momento che con il canto nasce il linguaggio, poesia e scienza sono indissolubilmente congiunte. Per questo scrive un poema e non un trattato. Anche qui, Aristotele aveva visto giusto: senza linguaggio non c’è conoscenza. E anche la poesia è conoscenza, è anzi conoscenza dell’universale. Al linguaggio Aristotele dedica trattati fondamentali, dalle Categorie, al De Interpretazione, alla Retorica, alla Poetica. E nell’Etica a Nicomaco specifica che i metodi della conoscenza, della ricerca della conoscenza, non sono gli stessi in tutte le scienze, ma devono adeguarsi all’oggetto della ricerca, la ricerca delle leggi del comportamento umano non è condotta con lo stesso metodo con cui la matematica calcola le proporzioni del reale, anche se sempre si tratta di linguaggio. Sono forse andato troppo lontano? La neurobiologia moderna ha scoperto che le zone del cervello che presiedono all’emozione e quelle dedicate all’elaborazione logica sono contigue e che se una delle due si guasta anche l’altra non funziona. Tutti gli accaniti sostenitori di una separazione tra razionale e irrazionale, tra emozione e riflessione, tra spirito e materia, sono serviti. Spinoza lo aveva intuito più di tre secoli fa. La scienza moderna gli dà ragione; e dà ragione anche ad Aristotele. Fanatici accoliti di tutte le religioni, fatevene, appunto, una ragione. Quanto a voi, lettori di poesia: non indietreggiate davanti all’incomprensibile. E’ probabile che proprio entrando dentro quel labirinto (metafora!) ciò che vi appare incomprensibile diventi comprensibile e da quel punto ciò che avete appena compreso vi apra la strada per nuovi ancora incomprensibili territori. Non perdetevi d’animo. Ogni lettura scopre cose che alla lettura precedente erano sfuggite.
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