Letteratura
“Riflessi sull’anima”: leggere Pavese oggi
Riflessi sull’anima è un titolo insolito, lirico, per una biografia. Fotografa subito l’accurato e paziente lavoro di ricostruzione che Angelo Piemontese ha condotto per restituire ai lettori il profilo – umano e intellettuale – di uno dei più grandi scrittori della letteratura italiana del Novecento: Cesare Pavese.
Il sottotitolo – “Incontro-scontro di Cesare Pavese col suo tempo” – chiarisce gli intenti del volume di Angelo Piemontese, garganico, docente di Lettere ed esperto di narrativa contemporanea: esaminare il complesso rapporto di Pavese con la storia, la società, la cultura, l’ambiente letterario con cui entrò in contatto e scoprire i “riflessi”, appunto, che si sono riverberati sull’anima dello scrittore: l’appassionato biografo spiega, infatti, che “nella sua intima disperazione” Pavese “ha portato riflesso il senso più profondo degli anni vissuti, non adeguandosi mai alla mentalità e alla cultura correnti, ma schierandosi costantemente contro, seppure senza urla o manifestazioni sopra le righe, sorretto sempre dal senso della misura”.
I primi segnali della sua voce “contro” – nota Piemontese – sono la tesi su Whitman e poi la traduzione in italiano di Moby Dick: studiare e proporre al grande pubblico testi e traduzioni di autori statunitensi nonostante “l’ostracismo fascista” – come lo defiisce Angelo Piemontese – si connota subito come un gesto dirompente. Presto questa insofferenza al clima autarchico e asfittico del Ventennio si traduce in esplicito rifiuto del modello di vita fascista: arroganza, arditismo, azione a tutti i costi, retorica del “me ne frego”, del “gettare il cuore oltre l’ostacolo”, il sentimento di una patria immaginaria, scrive Pavese, sono gli spasmi di un potere e di una civiltà pronti ad implodere e che non hanno alcuna corrispondenza con la vita reale.
Coraggiosamente – mette in luce Piemontese – lo scrittore di Santo Stefano Belbo prende le distanze dagli intellettuali crociani o rondisti che fanno del classicismo la nicchia in cui difendere la propria neutralità, un rifugio, una turris eburnea. Parlare di letteratura americana nell’Italia fascista è proibito: equivale a parlare di democrazia, a tastare un terreno nuovo, immune dal nefasto mito del superuomo che, lanciato da D’Annunzio – sulla base di suggestioni nietzschiane – si era poi incarnato in Mussolini. A Pavese, invece, la letteratura americana suggerisce modelli di vita sani, autentici, ritratti di uomini nuovi, operai, disoccupati, ragazzi, riflessi dell’uomo universale che può essere capito da tutti e che trova realizzazione in personaggi come Talino di Paesi tuoi o Anguilla, il protagonista del romanzo maturo La luna e i falò.
Dunque, nonostante le frequenti professioni di “apoliticità” letteraria – certamente conseguenza dell’affinità di pensiero con Vittorini – Piemontese nota che in Pavese si fa strada il profilo dello scrittore impegnato: non esiste l’arte per l’arte. E persino la più oziosa lirica parnassiana risolverà per il lettore un problema della pratica: come vivere sognando, annota nei suoi scritti lo scrittore delle Langhe. È questo il distacco dal senso crociano dell’arte come “intuizione pura”. E la vicinanza alla vita, alla società e alle sua fasce deboli determinerà l’accostamento di Pavese al PCI, dopo il ’45. L’interesse dello scrittore per la realtà concreta lo porta a cogliere l’opposizione netta tra una borghesia fatua, vuota e il mondo dei lavoratori, operai, contadini. E Pavese, sempre più immerso nel clima che presto darà vita al Neorealismo, non si rivolge alla scrittura in modo ideologico, ma si serve di immagini tratte dalla quotidianità, dalla storia.
Piemontese nota, poi, che nelle opere pavesiane si attua parallelamente un processo di ricerca sulla lingua, che lo scrittore delle Langhe cerca di rendere sempre meno letteraria, più comunicativa, modellata sul parlato, diretta, “antinovecentista”, direbbe Pasolini, lontana sia da forme di chiusura ermetica sia dagli sperimentalismi gaddiani.
L’analisi condotta da Piemontese dimostra che la prospettiva di Pavese si amplia sempre di più. Non basta interessarsi ai problemi sociali, non è sufficiente andare verso il popolo: l’obiettivo è rompere la solitudine dell’uomo, favorire attraverso la letteratura l’apertura dell’uomo verso l’uomo. Per Pavese lo scopo della letteratura è “cogliere l’uomo”, nota il saggista garganico. In questo percorso lo appoggia Bianca Garufi, donna colta, dai vasti interessi e dalla passione per la psicanalisi, con cui Pavese condivide la suggestione degli studi etnologici e del mito: è questo il momento in cui lo scrittore si dedica ai Dialoghi con Leucò, una reinterpretazione del mito classico – riletto con accenti e sfumature che potremmo quasi definire postmoderni – che dà voce a una visione simbolica della realtà contemporanea.
L’attenzione di Piemontese si rivolge anche allo stile di Pavese: la sua scrittura non è una semplice narrazione di fatti, un intreccio di vicende. Pavese insiste su tematiche ricorrenti e confessa infatti che ogni vero scrittore è splendidamente monotono, perché raccontare è monotono. Lo aveva detto anche Saba parlando di Petrarca, notando che la sua grande poesia si era sviluppata interamente attorno all’idea ricorrente, ossessiva, del suo infelice e irrealizzato amore per Laura. E l’arte non ha paura di ripetersi. Quella che cerca l’originalità immaginifica ad ogni costo lascia dubbi sul suo valore.
L’amore – osserva ancora Piemontese – è un’altra componente fondamentale della esperienza umana e letteraria di Pavese, come scrive in una lettera del ’32, sottolineandone l’incontrollabile forza: l’amore è vita e la vita non vuole ragionamenti.
Travolgente, per esempio, è il noto legame con l’attrice americana Constance Dowling, che si conclude con un’esperienza fallimentare, una crisi profonda. Con meticolosa attenzione, il biografo ricorda che Pavese nel suo diario Il mestiere di vivere annota: non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela la nostra nudità, miseria, inermità, nulla. Lui cerca di convincersi – lo scrive a Constance – che t’was only a flirt (è stato solo un flirt, una storia), ma si susseguono nel suo cuore sentimenti contrastanti, rassegnazione e speranza, strette al cuore, la sempre più pressante tentazione del suicidio: il gesto – il gesto – non dev’essere una vendetta. Dev’essere una calma, stanca rinuncia, una chiusa di conti, un fatto privato e ritmico. Una battuta finale. L’amore per Constance si rivela una storia sbagliata, Pavese non riesce a vedere la reale natura della donna e lei non comprende il calibro culturale di Cesare, al punto che alla sua morte – osserva con ironia Piemontese – avrebbe esclamato stupita: non sapevo che fosse uno scrittore così famoso!
Il 27 agosto 1950 Pavese perde la sua battaglia contro il vizio assurdo, cede alla tentazione suicida, in lui prende il sopravvento l’impulso all’autoannientamento. Ripeness is all aveva scritto – citando il Re Lear, in epigrafe a La luna e i falò – ma la maturità irraggiungibile condanna al peso insostenibile dell’incompiutezza.
La disperata ricerca di un radicamento, il bisogno di stabilità sentimentale, il rifiuto del fascismo, l’interesse per una “cultura altra”, come quella dei popoli primitivi, dei classici, dei miti antichi, la dedizione costante ai testi, la scrittura spinta fino a diventare una religione del lavoro, dicono molto al nostro tempo che – scrive Piemontese – “non ha alcun punto fermo” e a tentoni cerca di “uscire dalla crisi valoriale con la convinzione di poter dire di tutto su tutto, senza possedere alcuna competenza”, complici i social network e la smania di visibilità che connota la realtà odierna.
Ma quello che resta di Cesare Pavese – evidenzia ancora Piemontese – è soprattutto la sua umanità, la volontà di non nascondere le proprie incertezze e sofferenze, gli smarrimenti di un animo inquieto: ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.
L’autore di Riflessi sull’anima chiarisce che di Pavese affascinano il dubbio, il conflitto interiore, il dramma di coscienza, la distanza dalle facili soluzioni che falsamente acquietano, la capacità coraggiosa di esprimere il proprio buio, come fa Corrado quando, nel romanzo La casa in collina, si interroga sulla guerra, sulla Resistenza, sulla morte, sul senso della vita: dei caduti che facciamo? Perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.
Per una società come la nostra che pretende risposte dirette, risolutive, certezze inequivocabili e che vede nel dubbio una forma di debolezza, Riflessi sull’anima lancia un messaggio profondo: l’esistenza è fatta di percorsi tortuosi, di approdi impossibili, di tentativi falliti, di illusioni e speranze, raramente di certezze. Quello che conta, però, è lo sforzo di cercare, se non altro per prendere coscienza di sé e delle proprie contraddizioni, per scoprire il “paese” interiore che vive in noi, come fa Anguilla nel romanzo La luna e i falò.
Il volume di Angelo Piemontese non è solo una biografia, peraltro curata nei dettagli e nelle riproduzioni fedeli di testi anche privati dello scrittore torinese. È un lavoro nobile, un monito. È la testimonianza di quanto la cultura e l’arte rendano possibile l’indagine sulla vita umana.
In un momento come il nostro, si legge in Riflessi dell’anima – “in cui la letteratura, salvo qualche eccezione, propone opere che sembrano non in grado di sopravvivere nel tempo”, leggere Pavese – conclude Piemontese – significa scegliere ciò che conta e che resta, la vera letteratura, il baluardo contro la mercificazione pervasiva di cui oggi siamo vittime.
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