Letteratura

Ridi e sopravvivi. La ricetta di Sholem Aleichem

20 Agosto 2021

Panico nello Shtetl, l’antologia di racconti di Sholem Aleichem (1859-1916) curata da Giulio Schiavoni, è una lettura piacevole. Soprattutto è una proposta editoriale intelligente. Intorno al mondo ebraico est europeo tra fine ‘800 e prima metà del’900 spesso prende corpo uno sguardo mitizzato.

Succede molte volte quando il soggetto in scena è un mondo scomparso. Operazione che non si produce per la prima volta, ma che tuttavia non per questo bisogna dare per acquisita. In particolare anche oggi in cui la memoria su un mondo scomparso corre il rischio di prodursi come mito. Un richiamo su cui molti anni fa aveva insistito Wlodlek Goldkorn di fronte alla costruzione mitizzata generata dalla lettura di Il mondo scomparso di Roman Vishniak e su cui più in generale, ha insistito più volte Claude Lévi-Strauss.

Dietro le immagini che apparentemente ritraggono un mondo ancora incontaminato, si profila infatti la miseria, la distruzione, il sopruso e i conflitti interni, così come nel catalogo fotografico di Roman Vishniak.

Quel mondo che sta al centro dei racconti di Sholom Aleichem conteneva tutto questo. Sholom Aleichem non mollava mai su questo punto. In questo la sua opera narrativa è l’esatto opposto dell’immagine, insieme nostalgica e naif, che si definisce sul mondo ebraico orientale.

Giustamente su questo profilo Giulio Schiavoni lavora e costruisce questa antologia che sostanzialmente accompagna tutta la produzione di Aleichem il primo narratore di massa in cui il mondo povero degli ebrei est-europei si riconosce, ma anche il primo grande narratore che impone che quel mondo venga guardato da chi spesso lo osserva da fuori.

Shololm Aleichem, riesce a far diventare quel mondo narrato un mondo finalmente visto anche da chi si colloca fuori da quel mondo con una tecnica narrativa specifica. La narrativa di Aleichem vive solo come autoriflessione, è discorso a un pubblico che già conosce cosa leggerà, spesso che cosa ascolterà perché i testi scritti di Sholom Aleichem sono stesure successive a una narrazione corale che avviene in pubblico. E che dall’ascolto e dall’interlocuzione con il narratore acquisisce la coscienza di sé, Un tratto questo che costituisce il filo narrativo della arte figurativa che Marc Chagall non ha mai abbandonato.

Un racconto in cui contemporaneamente l’autoironia, la descrizione delle proprie disgrazie, la costruzione della spiegazione autoassolutoria o per dire che nonostante tutto “domani andrà meglio” sono tecniche per far parlare un soggetto, ma anche farlo uscire dall’immagine stereotipata che ha il pubblico dei non ebrei che vivono intorno a lui.

Tutti i racconti che hanno al centro il pogrom (e in questa raccolta ce ne sono molti) – ovvero la spedizione la spedizione, violenta -non solo perché distruttiva di cose, ma spesso perché mirata a uccidere che segna un aspetto rilevante della vita e – forse più precisamente della sopravvivenza del mondo ebraico in Est-Europa – sono non uno sguardo sulla propria miseria, ma su un modo di reinvestire verso domani.

Eppure anche l’ironia non è detto che rappresenti una risorsa. Talvolta è la spia significativa di uno strumento che continua ad essere usato soprattutto in assenza di altre risorse.

Significativi  i due racconti che Schiavoni include in questa raccolta e che riguardano la vita degli ebrei est-europei una volta arrivati negli Stati Uniti (Bel Ajsik racconta le grandi meraviglie dell’America e Da noi nessuna novità).

Di nuovo torna il codice dell’autoironia, eppure quello che emerge è che a differenza della forza dell’autoironia in un mondo ostile noto (quell’dell’Est Europa che ormai è alle spalle) l’America rischia di essere un luogo dello smarrimento dove molte degli strumenti e dei codici precedenti non sono più una risorsa. Comunque «non salvano».

Il mondo di ieri non c’è più, quello che si ha davanti non fa intravedere percorsi di in cui riconoscersi.

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