Letteratura
Riccardo Cucchi: «Denaro in cambio di silenzi. Questo è lo sportwashing»
«Raccontare il calcio è come raccontare la vita». A mettere per iscritto queste parole è la voce – la penna per la precisione – di Riccardo Cucchi. Settantuno anni, giornalista, indimenticato radiocronista per una vita ai microfoni di Tutto il calcio minuto per minuto, Cucchi, oggi impegnato con Amnesty International Italia e Sport4Society come
presidente della giuria del premio Sport e diritti umani, ha dato da poco vita a un amabile, leggero e ricco volume dal titolo Un altro calcio è ancora possibile (People edizioni, pp. 165, 16 euro). Un libro pieno di domande sul calcio del futuro, quello maschile e quello femminile, sui rischi e sulle malattie che ne mettono a repentaglio fascino e respiro, sulla sua sostenibilità, sul ruolo dei media, della politica, delle istituzioni nazionali e internazionali. E non ultimo, su quello di chi ama questo sport dalle profonde radici popolari che rischia di veder espropriata la propria passione.
Cucchi, partiamo da una frase del libro: «La nostalgia non è una buona consigliera». Cosa c’entra la nostalgia con la possibilità di un altro calcio?
La nostalgia non c’entra nulla. Per questo dico che non bisogna seguirla, perché può portarci fuori strada. Tutti siamo legati al nostro passato, ma pensare al calcio degli anni ’70 pensando di farlo rivivere “romanticamente” non ci porta da nessuna parte. Come contemporanei, abbiamo la responsabilità di capire cosa è successo, quali sono le distorsioni del calcio di oggi e capire come questo calcio possa rimanere fedele a alcuni elementi costanti nella storia dello sport: i valori da un punto di vista etico, dei diritti umani e dei sentimenti – penso a quelli dei tifosi – che vanno tutelati e non calpestati.
Tra i mali che affliggono il nostro calcio, lei insiste molto sul ruolo che gioca il razzismo…
Il razzismo è di per sé una cosa stupida, incomprensibile e perdente storicamente. Ma soprattutto è privo di senso all’interno di uno stadio, ovvero in quel momento in cui lo sport è messaggero di accoglienza, di idee, di collaborazione, di sfida leale, senza distinzione di sesso, colore della pelle, religione ed etnia. È un fenomeno che purtroppo è entrato negli stadi e che va respinto. Bisogna avere la forza di farlo.
Quali sono invece i fattori su cui costruire un futuro sano per il calcio e lo sport?
Bisognerebbe “spolverare” e ripulire il tutto da quella montagna di denaro che sta travolgendo il calcio. Una montagna sempre più vorace che spende male i propri soldi e che invece di correggere il tiro ne chiede sempre di più. Bisognerebbe far riemergere il sentimento perché chi compra un biglietto, un abbonamento per lo stadio o per la Tv fa un sacrificio economico e lo fa solo per una ragione: vivere la passione per la sua squadra del cuore. Se il sentimento dovesse esaurirsi, si esaurirebbe anche il business, perché l’industria del calcio si basa sulla passione dei tifosi.
Dopo il mondiale del Qatar 2022, abbiamo vissuto un’estate in cui abbiamo visto tanti calciatori ancora giovani e nel pieno della loro maturità scegliere di andare a giocare in Arabia Saudita. Cosa è accaduto e cosa sta accadendo al sistema calcio?
Il Qatar è stato un mondiale sbagliato soprattutto perché il calcio ha girato la testa dall’altra facendo finta di non sapere che in quel Paese i diritti umani vengono calpestati. Quando lo sport rinuncia al suo principale ruolo di veicolo di messaggio di pace e diritti umani, rinuncia ad essere sé stesso. Non può esistere sport senza valori. Nel caso del Qatar, questa operazione è stata promossa semplicemente per una ragione economica: denaro in cambio di silenzi. Questo è lo sportwashing, il tentativo di sfruttare lo sport per coprire ciò che non va rivelato. Sulle scelte dei calciatori non entro. Ogni calciatore, da professionista, ha il diritto di decidere cosa fare della propria esistenza professionale e umana. L’Arabia Saudita ha grande facilità ad attrarre calciatori ed allenatori in virtù dei guadagni che garantisce. Non sono convinto però che facendo così possa far partire una tradizione culturale legata al calcio. Gli stadi sono vuoti… lo vediamo dalle immagini che passano ogni tanto. Non credo che il calcio attecchirà così, perché ha bisogno di storia, di passioni e di persone che lo pratichino. Sono preoccupato per il ruolo che l’Arabia Saudita – lo abbiamo visto anche nella corsa per l’Expo – sta prendendo nel mondo dello sport in virtù del suo potere economico. L’Arabia Saudita viola i diritti umani e usa lo sport per il suo progetto di potere. Ed è grave che lo sport si renda complice.
Nel libro scrive che «la radiocronaca è improvvisazione sulla realtà che si rivela sotto i tuoi occhi». Cosa deve fare un giornalista quando ha la sensazione di raccontare un fenomeno sportivo che potrebbe celare dei comportamenti contrari alla lealtà sportiva?
Deve denunciare. Deve fare il giornalista. Un giornalista che non abbia voglia di denunciare ciò che sente sia sbagliato non fa il suo mestiere. Un giornalista deve rispettare il pubblico a cui si rivolge. Il modo migliore per farlo è quello di essere sincero e leale con il suo pubblico. Ricordo sempre la frase straordinaria di Enzo Biagi: «Il giornalista è un testimone della realtà». E in quanto testimone deve essere leale.
Quanto è difficile raccontare con lealtà un evento come il mondiale del Qatar?
Da quel mondiale il giornalismo non ne è uscito bene. L’immagine della Germania che si autocensura, con i calciatori tedeschi con la mano sulla bocca perché è stato negato loro di scendere in campo con una fascia arcobaleno in difesa dei diritti LGBTQIA+ è la testimonianza di una censura evidente. Quell’immagine non è passata in Tv perché censurata dalla regia internazionale nel silenzio di tutti. Quell’immagine è però arrivata sui nostri cellulari perché la censura è stupida quanto il razzismo. E lo è ancor di più in un’epoca tecnologica come la nostra. Quell’immagine arrivata sui nostri telefonini è stata quindi ancor più potente.
Come sta il giornalismo dal suo punto di vista?
Credo che il giornalismo, come lo sport, viva una battaglia costante per la sua libertà e la sua indipendenza. Una battaglia che si combatte contro i poteri. Quando si trasforma il giornalismo in tentativo di cassa di risonanza del potere si fa propaganda. È un rischio al quale tutti i giornalisti sono soggetti. Occorre personalità, indipendenza, libertà. Sappiamo però che il precariato, ad esempio, è uno degli strumenti su cui il potere conta molto, costringendo molti colleghi, soprattutto più giovani e senza sicurezza sul loro futuro, ad essere più fragili. È una battaglia che gli organismi di categoria – Ordine dei giornalisti, Federazione della stampa, sindacato – sanno perfettamente di dover intraprendere oggi più che mai. Il destino del giornalismo è questo: combattere per la propria indipendenza.
Nel libro, vengono messi in scena diversi personaggi, da Nelson Mandela a Sócrates passando per gli storici radiocronisti di Tutto il calcio minuto per minuto. Ma ce ne sono un paio su cui vorremmo portare l’attenzione, Gary Lineker e Natali Shaheen. A loro è andato il Premio Sport e diritti umani 2023. Chi sono e cosa hanno in comune?
Sono due grandi atleti. Lineker, Scarpa d’oro ai mondiali del 1986, non ha mai subito né una espulsione né una ammonizione in tutta la sua carriera. Oggi è un opinionista che è stato addirittura sospeso dalla BBC per aver criticato il governo inglese sulle misure restrittive e crudeli nei confronti dei migranti. Amnesty International ha voluto così premiarlo con uno straordinario riconoscimento. Natali è invece una calciatrice palestinese che ha combattuto fin da quando era bambina. Giocava in mezzo alla strada fra tanti maschietti in una Palestina occupata e in una cultura – quella islamica – che non vede di buon occhio le donne praticare sport, soprattutto se in calzoncini corti. Lei non si è mai curata di quelli che le dicevano: «Se continui a giocare con i maschi, non ti sposerai mai». È stata aiutata dalla sua straordinaria famiglia e poi è stata scoperta da una squadra di Ramallah. Ha iniziato a giocare da professionista, è diventata capitana della nazionale palestinese. Oggi è in Italia. È stata la prima giocatrice palestinese a sbarcare in Europa, ma soprattutto ha vinto la sua battaglia di donna libera indipendente.
Jorge Valdano, il filosofo del calcio campione del mondo con l’Argentina nel 1986, ha dichiarato che «il calcio è stato sempre un gioco metrico, non millimetrico» e che il Var è «una interferenza del gioco, del gol, il momento sacro del fútbol». Cosa pensa di queste parole?
Il Var è un’illusione, quella di poter realizzare una perfezione nel gioco del calcio. Perché chiedere, tra le tante attività umane, solo al calcio di essere perfetto? Non potrà mai esserlo, perché interpretato da uomini e donne. Nel calcio, gli errori li possono commettere tutti, arbitri compresi davanti ad un’immagine. L’unica tecnologia che ha un senso è la goal-line technology. La cosa più grave è l’assenza di una cultura sportiva che ci consenta di accettare ciò che l’arbitro decide in campo. Che ci piaccia o meno.
Se un giovane cronista le chiedesse un consiglio su come raccontare alla radio un gol nell’epoca del Var con il rischio che venga annullato o comunque validato solo dopo l’intervento della tecnologia, cosa le direbbe?
Di viverlo con lo stesso stato d’animo con il quale lo vivono i tifosi. Io sono un tifoso. Ero un ragazzo di curva prima di fare il mio mestiere e lì sono tornato, a tifare la mia Lazio. Come tutti i tifosi sono in attesa del Var quando la palla entra in rete perché non sono sicuro che il gol venga convalidato. Esulto ma poi mi devo fermare ed attendere il verdetto finale. La stessa cosa deve fare un radiocronista: accompagnare i sentimenti e le passioni di chi ascolta. Tornare indietro non è possibile anche perché, se c’è una ragione vera per cui è stato introdotto il Var era che a non avere le immagini a disposizione era solamente l’arbitro. L’unico senza monitor.
Nel libro tornano spesso i suoi maestri di giornalismo. Una curiosità, tra i radiocronisti internazionali, c’è qualcuno che la affascina?
Sono un nativo radiofonico. La radio era l’unico strumento con cui potevamo vivere il calcio ed entrare in rapporto con la realtà. Sono cresciuto ascoltando le voci di questi straordinari narratori di calcio. Lo dico con sincerità. Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Claudio Ferretti, Ezio Luzzi, Roberto Bortoluzzi erano inarrivabili.
Proviamo a chiudere con una frase che sta nelle prime pagine del libro: «Il debito di gratitudine nei confronti delle parrocchie il calcio italiano non sarà mai in grado di risarcirlo». A voler leggere tra le righe di queste parole, c’è tanta carne al fuoco…
Faccio dei nomi. Mazzola, Rivera, Boninsegna, Riva fino ad arrivare alla contemporaneità con Vialli e Del Piero. Sono tutti calciatori nati in parrocchia. Le parrocchie consentivano a tutti di giocare liberamente: ragazzi alti, bassi, magri, grassi, bravi o meno bravi. Si giocava in parrocchia perché era l’unica possibilità di avere un campo e delle reti perché se non c’era il campo dell’oratorio o del prete bisognava giocare per strada, sull’asfalto. Il pallone era un oggetto raro. Da questo punto di vista l’oratorio ha rappresentato moltissimo. Parlo della mia generazione, quella nata negli anni ’50. A Roma, città in cui vivo, trovo sempre meno bambini che giocano per strada mentre trovo sempre più cartelli che vietano il gioco. Mi fa inorridire leggere: «Vietato giocare al pallone». Io credo che una delle ragioni della crisi tecnica del nostro calcio – incapace ormai di sfornare campioni come Del Piero, Totti, Pirlo – derivi anche da questo. Giocando liberamente, i bambini esprimono gioia, felicità, creatività e iniziano davvero a capire come gestire un pallone. Nelle scuole calcio credo che sia più importante la tattica, la fisicità, l’altezza. Credo che questa involuzione che ha prodotto più tattica e meno tecnica abbia alla fine influenzato una generazione di calciatori che non riesce ad esprimersi tecnicamente all’altezza di altre.
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