Letteratura
Ricami proustiani
Da sempre, o perlomeno da quando mi illudo di potermi accompagnare alla letteratura prendendola per mano, provo avversione per i critici che hanno inchiodato i capolavori del passato sulle lastre monumentali dell’analisi magniloquente, pomposa, declamatoria. Credo che il lettore, a prescindere dal numero di libri incontrati, debba essere esigente quanto l’autore che aspira a un pubblico scelto, pertanto spingersi anche laddove un’opera viene presentata come difficile e complessa.
Di Proust a chi non l’ha mai letto direi che mi incuriosisce e mi appassiona, mi intrattiene piacevolmente e, qui e là, mi diverte finanche. Proust, un divertimento? Eh, sì, uno che sa narrare e affabulare, mantenendo alta la mia attenzione, mi diverte! Cos’altro potrebbe rallegrarmi di più? L’unico grattacapo con lui è il tempo, e andando alla ricerca di quello perduto ha scritto uno dei capolavori del novecento, la mirabile “Recherche”, appunto, di cui fa parte il secondo di sette volumi, “All’ombra delle fanciulle in fiore”.
Certo, Proust non è uno che, per così dire, taglia corto, e se lo frequenti ti porta lungo un percorso pieno di deviazioni, ma non per questo impercorribile.
Considerato dalla maggior parte della critica come un libro di passaggio, il secondo romanzo de “Alla ricerca del tempo perduto” si rivela invece nella pienezza del suo stile classico, con descrizioni magnifiche e particolareggiate dei sentimenti umani, manifestati in un mulinello di sensazioni immediate ed emozioni perforanti, che il narratore prospetta guardando all’alta società francese del tempo e ai suoi grandi amori non corrisposti.
“…le ragazzine che avevo scorto procedevano leste, con quella destrezza dei gesti che nasce da una perfetta scioltezza del corpo e da un disprezzo sincero per il resto dell’umanità, procedevano leste, senza esitazione né rigidità, compiendo esattamente i movimenti voluti, in una piena indipendenza reciproca di tutte le membra, mentre la maggior parte del corpo conservava quell’immobilità così notevole nelle buone ballerine di valzer.”
All’ombra delle fanciulle in fiore! Un titolo ispirato, elegiaco e delicato. Vi è davvero tanto dentro: il fascino inconsapevole esercitato dalla giovinezza, la grazia, le pulsioni immediate del narratore, ipersensibile e nevrotico, catturato da un gruppo di ragazze più giovani, dinamiche e vitali, che raffigurano tutto ciò che lui non è, e tra le quali compare Albertine, che tanta parte avrà nei volumi successivi.
Attenzione, immergendosi nel romanzo ci si potrebbe chiedere perché leggere delle pagine che vanno dietro ai dettagli sui pizzi e i merletti di un abito, oppure si soffermano con perizia sui momenti futili delle giornate vissute in una casa borghese o al Bois de Boulogne? Ma è solo un momento, poi, passa. Ed ecco che il pensiero di un Proust esclusivo ed escludente ci abbandona e si finisce per prendere a cuore l’abissale solitudine del giovane e malaticcio Marcel, un osservatore attentissimo delle vite altrui, la cui coscienza emerge imperante e avvolgente.
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