Letteratura
Requiem per un deflettore: la divulgazione scientifica in Italia
Renato Nicolini ricordava come nei primi anni sessanta, a un convegno internazionale della gioventù comunista tenutosi a Cuba, ci fosse stato un dibattito sulla obsolescenza programmata, con una particolare ossessione sulle lame dei rasoi. Le lame del rasoio erano costruite in modo da perdere il filo subito, obbligando le masse popolari a ricomprarle, perpetuando così il dominio del capitalismo. Fu Ernesto Guevara che, impietosamente, chiuse il convegno facendo notare, lui barbuto, come il rasoio avesse la funzione manifesta di tagliare i peli della barba, i quali in effetti logorano la lama che va cambiata regolarmente. La lezione di Guevara sembra sia stata inutile per Mario Tozzi (Tecnobarocco. Tecnologie inutili e altri disastri, pp. 194, € 18, Einaudi, Torino 2015) che ritiene la tecnologia barocca, ossia quella esagerata e inutile, anzi dannosa, una grande macchinazione di alcuni centri di potere e di alcune lobby industriali per renderci dipendenti da stili di vita che hanno il solo fine di arricchire i soliti noti. E qui il pensiero corre non tanto ai giovani comunisti come Nicolini, ma a un certo populismo che ha, largamente, conquistato il paese, come nelle tesi di Beppe Grillo.
Perché dunque dedicare tempo ed energia alla lettura di un libro simile, liquidabile come un pamphlet passatista prodigo di banalità: le enciclopedie meglio di Google, il telefono a disco meglio di internet, la foglia di fico meglio della carta igienica, i bottoni meglio della cerniera, e via altri florilegi? Perché se si legge il libro in maniera serissima, come se fosse un trattato che davvero ha l’ambizione di dire delle cose importanti sulla tecnologia contemporanea (e sulla storia dei prodotti tecnologici); se si disseziona il libro avendo in mente un orizzonte più ampio, si può capire qualcosa sulla divulgazione scientifica in Italia, sul nostro rapporto emotivo con la tecnologia e, anche, su cosa ne sappiamo del dibattito internazionale sul tema.
Partiamo dall’impostazione del libro.
Non è un libro accademico né un manuale universitario, è un pamphlet scritto con l’obbiettivo di raggiungere il lettore medio, in un paese, l’Italia, dove la divulgazione scientifica e tecnologica è stata per decenni lasciata nelle (abili) mani di Piero Angela e del di lui figlio Alberto. Il successo di personaggi come i due Angela non solo ci dà il polso della situazione circa la capacità di discutere pubblicamente di temi così rilevanti, ma dice anche molto, troppo forse, sulla capacità di certa cultura accademica e colta di (non voler) interloquire con l’opinione pubblica. Mario Tozzi è un personaggio televisivo, con tutte le sfaccettature che questo significa, ma è anche uno scienziato, un geologo, e un ricercatore del Cnr. Come intrattenitore e scienziato, Tozzi aveva la capacità di mediare tra questi due mondi. Si può obiettare che Tozzi non è un esperto di tecnologia, né ha mai lavorato professionalmente sul concetto di innovazione, sul rapporto tra téchne e società.
Ma la trans-disciplinarietà è un approccio fecondo: la teoria della deriva dei continenti è stata descritta, ad esempio, da un metereologo. E tutti sappiamo, grazie a decenni di studi di sociologia della scienza da Thomas Kuhn in poi (The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press 1962) che proprio chi è fuori dal paradigma scientifico culturale dominante può portare innovazioni interessanti. E infine una figura che ha un ruolo pubblico, così come uno intellettuale, può permettersi di spaziare in campi non suoi. Non si pretende dunque di incontrare Tozzi alle riunioni annuali della Society of History of Tecnology, ma sorge qualche perplessità quando ci si accorge che Baricco è citato più volte come riferimento teorico, mentre la rivista “Technology&Culture”, non compare affatto. Ma poi viene da chiedersi chi conosca in Italia quelle associazioni, si ricordano gli infiniti problemi nel procurarsi le riviste internazionali, e che per partecipare alle conferenze internazionali bisogna pagarsele perché gli atenei rimborsano poco o nulla.
Tozzi dunque non è un esperto, non conosce professionalmente il tema che discute, ma questo non estingue ancora del tutto il suo credito di fiducia. Il concetto di fondo per l’autore è che la tecnologia avrebbe lo scopo originario di renderci la vita migliore (assunto tutto da dimostrare), ed è diventata invece uno strumento per rendere la vita sempre più artificiale, sciocca e priva di ogni riferimento ai nostri bisogni veri. Il libro ci ricorda la morte del deflettore, così che siamo costretti a usare l’aria condizionata in auto; o l’ascensore, costruito apposta per impedirci di fare le scale e stare in forma, il tutto mentre Wikipedia e Google hanno l’obiettivo di istupidirci, mentre con i libri fatti di carta l’umanità era ben più saggia. Un filo rosso attraversa tutto il volume, quello del complotto (proprio come nel blog di Beppe Grillo). La tecnologia barocca è il risultato di un manipolo di oscuri capitalisti, bramosi di spillare risorse alle masse, abbindolandole con oggetti sempre più complessi, inutili e contro-producenti, con l’obbiettivo finale di arricchirsi, senza tenere in nessun conto ambiente, spreco di energia, e perversi effetti collaterali. Nel libro si trovano così il “tecnocrate capitalista”, che si inventa una tecnologia che “arricchisce, di fatto, sempre i soliti”, mentre l’auto a idrogeno non decolla per “gli interessi dei petrolieri”, con il risultato che “la tecnologia barocca è asservita al mercato e ai potentati economici”. Vecchio buono, nuovo cattivo: ecco la tesi portante del libro. E come in ogni pamphlet conservatore e passatista, non ci dice fino a quale data le cose andavano bene e da quale data hanno cominciato ad andar male. Per Tozzi, (simile in questo a tutti i populisti), i problemi sono sempre creati dagli altri, in questo caso avidi capitalisti e ottusi tecnocrati, mentre le masse sono sempre buone, anzi stupide, come nel capitoletto dedicato alle carte di credito dove noi tutti siamo descritti come un branco di idioti pronti a spendere compulsivamente (e senza accorgercene) per la sola esistenza della tecnologia cattiva del pagamento elettronico.
Ma Tozzi non scrive solo cose banali con l’intento di solleticare gli istinti più beceri, non conosce quello di cui scrive: perla tra le perle il capitoletto sull’auto elettrica. Le prime auto elettriche “erano piccole e le batterie di accumulo enormi, l’autonomia scarsa e il tempo di ricerca pressoché infinito: non potevano avere successo”. Quasi nessuno sa, tanto meno Tozzi, che a inizio Novecento l’auto a combustione interna non era dominante, lo era quella elettrica, come ci ricorda Gijs Mom (The Electric Vehicle: Technology and Expectations in the Automobile Age, Johns Hopkins University Press 2004) spiegando anche che l’auto elettrica fallì perché era percepita dagli acquirenti, maschi adulti e ricchi, come troppo silenziosa e pulita. Loro preferivano macchine rumorose con cui esprimere violentemente rapporti di forza, come mirabilmente descritto da Kurt Möser (The Dark Side of ‘Automobilism’, 1900-30: Violence, War and the Motor Car, “Journal of Transport History”, 24/2, 2003). Usare quelle fonti ci obbliga a ripensare la tecnologia come fenomeno da analizzare in relazione ai generi e ai rapporti sociali, in cui, in altre parole, la tecnologia assume valenze simboliche e, allo stesso tempo, evidenze materiali che vanno ben al di là di ogni loro uso puramente strumentale. Non solo, ma una disamina seria della rinascita dell’auto elettrica ci avrebbe portato a leggere un libro controverso e problematico come quello di David Edgerton, The Shock of the Old: Technology and Global History Since 1900 (Oxford University Press 2006) che spiega la nostra ossessione per inventori, invenzioni e innovazione, mentre sono proprio le tecnologie a essere vecchie, tecnologie come quelle dell’auto elettrica, o della bicicletta, data per morta, ma ben viva. Il che, seguendo il dibattito sul post-colonialismo, (come in Tension of Empire di Frederick Cooper, University of California Press, 1997) ci dà un ulteriore spunto nell’analizzare la discussione sulla tecnologia come risultato di un imperialismo culturale di fondo, in cui solo le tecnologie prodotte nell’Occidente hanno validità, non quelle definite alle periferie (Popularizing Science and Technology in the European Periphery, di Faidra Papanelopoulou, Ashgate, 2009). Le biciclette, negli anni settanta del Novecento, erano defunte in Europa e in nord America, non però in India e Cina.
Insomma, Tozzi voleva acquisire prestigio intellettuale pubblicando con Einaudi. Einaudi, come tutti gli editori, ha bisogno di vendere libri, e avere in scuderia un presentatore televisivo aiuta parecchio. Non si capisce solo cosa c’entri la tecnologia in tutto questo.
(L’articolo anticipa una recensione che verrà pubblicata su L’Indice dei Libri del Mese di settembre)
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