Letteratura
Renata Vattelappesca – Lettura del libro di Catherine Guérard
Catherine Guérard — Renata vattelappesca — trad. di Paola Vallatta, Ventanas edizioni, Roma 2024
In questo romanzo scritto in prima persona, in un’unica frase consecutiva, senza presa di respiro, nella colata ininterrotta di 183 pagine, una donna racconta il suo itinerario di liberazione. In realtà manca solo il punto fermo a separare le lasse narrative, non certo le virgole e le maiuscole a demarcare i turni dei dialoghi e gli snodi del racconto, e tuttavia la narrazione, che si svolge in un’ampliazione di un unico monologo interiore, senza “a capo”, è redazionalmente audace e si gioca in questa scelta elocutiva estrema il suo colpo ad effetto senza tuttavia punire la leggibilità.
Certo, non ci troviamo davanti a una pagina di scrittura ornata ma al cospetto di una procedura stilistica screziata che intende mimare il magma emotivo interiore di una Renata qualsiasi, una a caso — “Renata n’importe quoi” reca il titolo francese tradotto ingegnosamente come si legge in copertina — una donna di servizio presso una famiglia borghese parigina che un giorno all’improvviso decide di rompere con il suo quotidiano lavorativo per consegnarsi a una vita randagia nella metropoli, senza nulla al seguito se non una borsa, una rosa Baccarà, e quattro pacchi in cui raccoglie le sue cose tra cui le lettere di un certo Paul. (Non vi nascondo che per tutto il racconto mi sono chiesto, soffrendo per lei, come tenesse e trasportasse quei quattro pacchi talora chiamati anche cartoni, giacché la protagonista rinuncia a una più pratica valigia).
La narrazione segue o meglio dire insegue una via d’uscita dalle costrizioni esistenziali di ogni genere con le movenze di una favola moderna nel gioco della sottrazione radicale, tra candore e rivolta, del superfluo che ci soffoca sotto questo cielo contemporaneo come diceva il poeta.
Ma la sottrazione non può procedere all’infinito, come è noto, quando si tende a separare parossisticamente il superfluo dal necessario. Come Diogene il cinico si libera della ciotola per bere quando s’avvede che un bambino lo fa alla fontana con le mani a conca, così la Renata del nostro apologo insegue con oltranzismo esulcerato uno schema di vita scarnifato all’essenziale, e su questo metro giudica tutto il resto del mondo, ancora colpevolmente per lei, asservito al giogo. Siamo nel 1967 ed è nell’aria il ron-ron contro la società dei consumi della rivolta studentesca che esploderà di lì a poco.
La narrazione si configura pertanto come un’ipotiposi, uno schizzo, una visione alternativa o un “what if” a dirla difficile: “cosa succederebbe se” mi licenziassi d’emblée e me ne andassi in giro tra le panchine, gli autobus, le stazioni del metrò parigino e l’esplorazione dei “possibili” esistenziali che ne conseguono: la libertà assoluta, gli uccelli, gli alberi di cui non si sa il nome, il sole che rende felici “e tutti gli altri sono dei cretini”, ma anche la pena, appunto, per chi è ancora sigillato in un ruolo sociale, in un mestiere: il portinaio, il panettiere, la cartolaia, la bigliettaia, il controllore ecc., insomma tutte quelle persone che Renata incontra nel proprio vagabondaggio, asservite ancora come le appaiono all’ingiunzione penosa del lavoro. Preminente appare nella follia dolce del personaggio — un’eroina in lotta contro le oppressioni del disagio della civiltà — la sua ansia di libertà totale. Renata vuole essere “una libera” in modo radicale. Sintomatico perciò che la prima notte della fuga, in cui dorme in albergo (ha i denari per poterselo pagare, non è una barbona) non riesca a prendere sonno all’idea che l’albergatore ha chiuso la porta di ingresso.
Mi chiedevo nel corso della lettura, date le impostazioni iniziali, quale curvatura e approdo potesse prendere e toccare un simile racconto. E mi attendevo, rispetto alla prima felicità plateale della donna per la raggiunta libertà, l’irrompere di una favola nera, qualcosa che turbasse il disegno di una vita troppo ingenuamente “altra” e mostrasse realisticamente la natura obbligata certo, ma ineludibile, delle nostre costrizioni, insomma di che lacrime grondi e di che sangue la catena che ci lega al quotidiano. Talora, come qui, basta che uno spago di un pacco si rompa per mostrare la fatale interdipendenza di tutto da tutto e la relativissima libertà di noi umani. Ed ecco che la follia della donna — uguale e contraria a quella del mondo asservito — , non può potrarsi all’infinto parrebbe. Uno dei due universi mentali dovrà cedere. Chi? Renata e la sua libertà, o il mondo e il suo vivere associati? C’è un epilogo fiammeggiante che non si può rivelare.
Il romanzo mi è parso esibire i tratti di un “conte philosophique” alla “Candido”, visto che siamo in Francia, con in più un idealismo dello sguardo per via del “cuore semplice” di lei, dal tono morbido e sognante, reso con tecnica lieve alla maniera del magico mondo di Amélie, tanto per indicare alcuni contesti di riferimento con cui ho triangolato mentre leggevo. Il radicalismo formale del racconto potrebbe destabilizzare alcuni lettori, rendendo la lettura dell’opera impegnativa, ma altamente gratificante credo per chi vi si immergerà.
Il libro (ricordo che la prima edizione è del 1967) è stato ripreso di recente in Francia e ha vinto nel 2022 il Prix Mémorables destinato alla riscoperta di autori francesi dimenticati. Ma dell’autrice Catherine Guérard si sa pochissimo tuttora, tranne che fu una giornalista e forse amante del Presidente Mitterrand, il François che leggiamo nella dedica. In Italia la traduzione esce per i tipi di Ventanas, una casa editrice nata appena l’anno scorso, intrepida e sgarzolina nel grande mare della produzione libraria italiana, a cui faccio i miei più candidi auguri
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