Letteratura
Raymond Carver, le cattedrali e la cecità della scuola 2.0
Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 12, , XXIX, §2)
Nell’era della scuola 2.0, le parole di Gramsci suonano scomode, anacronistiche, proprio inadeguate e sbagliate: noia? sofferenza?
La regola aurea della scuola contemporanea è che lo studio non deve essere complesso, anzi corre l’obbligo di semplificarlo:
– I ragazzi hanno bisogno di vivere! (Come se lo studio e la vita fossero due alternative.)
– I ragazzi vanno motivati! (Come se occuparsi della propria vita non fosse un motivazione sufficiente: eppure per noi lo era … ma i confronti sono banditi, vietato dire “ai miei tempi…”!)
– I ragazzi non possono rimanere seduti per cinque ore al giorno! (E infatti ci siamo inventati la figura dell’animatore digitale, con un lessico usurpato ai villaggi-vacanze, per illudere che la scuola sia un gioco divertente).
– I ragazzi devono fare nuove esperienze! (E, perciò, come un’agenzia di viaggi, la scuola organizza per i suoi giovani soggiorni all’estero: vuoi mettere quanto impari passeggiando la sera tra le strade di Londra piuttosto che startene a scuola a sentire un prof. che ti parla del duello tra Clorinda e Tancredi!)
– I ragazzi devono misurarsi con il mondo del lavoro! (E, per questo, il MIUR ha escogitato anche per i licei ben 200 ore di alternanza scuola- lavoro, inducendo la gente comune a credere che la scuola si possa alternare ad altro, anche se questo “altro” molto raramente si traduce in “lavoro”, come è noto, ma pochi ne parlano!)
Quando Gramsci definiva lo studio un mestiere intendeva dire che la scuola è la dimensione che forma la struttura umana e prepara ad affrontare la vita, meglio, è ciò che consente di vivere. Per questo ha un suo speciale tirocinio: intellettuale, perché insegna a pensare in modo autonomo; e muscolare-nervoso, perché tempra, rinforza la capacità di concentrarsi, di misurarsi con la fatica, di sfidare sé stessi.
Ma, oggi, con la scuola delle TIC, delle LIM, dei PADLET, del CLOUD, dei questionari caricati su YAHOO, chi lo conosce più Gramsci?
Una vita non si gioca tutta nella contingenza dell’incontro? (Massimo. Recalcati, L’ora di lezione)
Paradossalmente, senza fare alcun cenno alla massiccia diffusione dei mezzi digitali nella didattica, Recalcati predica un necessario e palingenetico cambiamento di rotta nella scuola, esalta la forza penetrante di un metodo davvero efficace e “innovativo”, quello fondato sulla parola e sulla forza seducente della voce, della presenza fisica dell’insegnante in classe. Peccato che non dica niente di nuovo: Socrate lo aveva sperimentato prima di lui, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
La voce, il dialogo sono i modi attraverso cui la scuola tradizionale dava vita all’incontro interumano tra chi insegnava e chi apprendeva, in una continua interscambiabilità di ruoli. Non c’è nulla di nuovo nel rilanciare la validità del metodo socratico, anzi, c’è molto di vero, ma nella scuola delle TIC non vale e nello studio di Recalcati questa rimane un’aporia .
Recalcati continua con le seguenti osservazioni: la voce inconfondibile di Pasolini che legge “Le ceneri di Gramsci” o quella struggente di Berlinguer che parla al suo popolo sono manifestazioni fortissime e delicatissime della potenza carismatica dello stile. Poiché il carisma altro non è che il modo singolare con il quale un insegnante fa vibrare il sapere che trasmette ai suoi allievi. È la voce che dà spessore alla parola.
L’insistenza su termini come voce e carisma genera degli inquietanti interrogativi.
Nella scuola digitale che tende al galoppo verso le classi virtuali, quale spazio potranno ancora avere la voce, la parola, la stessa presenza fisica del docente, che sarà chiamato a interagire con i suoi studenti via web, attraverso asettiche videolezioni o che – secondo i nuovi pedagogismi – dovrà limitarsi ad essere un facilitatore dell’apprendimento, abdicando, quindi, alla sua funzione trasmissiva? Voce e parola a che cosa serviranno più? Le osservazioni di Recalcati restano, purtroppo, una bella formula in perfetta contraddizione con la realtà.
Per quanto riguarda, poi, la parola carisma, bisogna andare cauti!
Il carisma è degli unti dal Signore! Attenzione, il mondo reale rivendica i suoi diritti! Gli insegnanti sono persone colte, che amano il loro lavoro e lo svolgono con passione, dignità, senso del dovere e responsabilità. Gli insegnanti – guarda un po’ – sono persone e non hanno il dovere di portare su di sé i “carismi” dello Spirito Santo. Poi, nell’esercizio delle loro funzioni sono dei pubblici ufficiali. E non c’è carisma che tenga.
Purtroppo la politica denigratoria di cui gli insegnanti sono vittime è la prova della scarsa stima di cui gode la classe docente in Italia: si pensi, da ultimo, con la 107/2015, all’istituzione dei bonus premiali (che, naturalmente, per converso hanno sempre un quid di punitivo!); si rifletta sulla rappresentazione mediatica degli insegnanti italiani, (basta dare uno sguardo sul web): il ritratto che emerge è quello di gente incapace di gestire le intemperanze adolescenziali e inadeguata a quella che – secondo i più – dovrebbe essere una missione.
Non si tratta, naturalmente, di giustificare i tanti casi di inadempienza e di incompetenza, ma d’altra parte non per le responsabilità di alcuni è lecito denigrare un’intera categoria, sottopagarla e dare per scontata la sua inadeguatezza al compito, al punto da rendere obbligatori corsi di pseudoformazione indiscriminatamente rivolti a tutti! Che i Dirigenti usino i loro superpoteri per punire i colpevoli, solo loro! E non si invochi il carisma dei pochi salvatori di un sistema, ormai, nell’immaginario collettivo, dipinto come malato!
No, la scuola non ha bisogno di personalità carismatiche. Come la storia tristemente insegna, fascino e carisma parlano solo alle emozioni; la scuola, invece, deve formare persone critiche, capaci di ragionare e anche di sottrarsi alle facili fascinazioni.
Perché funzioni, la scuola ha bisogno di docenti che nonostante tutto continuino a credere nel senso del loro lavoro culturale.
C’è un racconto di Raymond Carver che sintetizza ciò di cui davvero la scuola non può fare a meno, s’intitola Cattedrale e parla di un uomo che invita a casa un certo Robert, anzi, è sua moglie a invitarlo, per un vecchio debito di riconoscenza morale. Il particolare è che Robert è cieco. Tutta la storia è filtrata dalla prospettiva infastidita e un po’ gelosa dell’uomo che si sente costretto dalla moglie a tenere la conversazione con un cieco di cui sa ben poco. Gradualmente la diffidenza sfuma. I due si trovano a parlare di cattedrali, il cieco, ovviamente, non ne ha mai vista una e l’uomo che lo ospita trova difficile descrivere a parole monumenti di bellezza ineffabile, si sente in imbarazzo: lui che ha sempre potuto vedere le cattedrali, non ne sa suggerire nemmeno l’idea. Il cieco capisce il suo disagio, chiede un cartoncino e una matita, mette la sua mano su quella del padrone di casa e insieme cominciano a disegnare una cattedrale. Il cieco dice: stiamo disegnando una cattedrale. Ci stiamo lavorando insieme. (…) Non credevi di farcela, eh? Ma ce l’hai fatta, ti rendi conto?
Poi, gli fa chiudere gli occhi e gli chiede: allora? La stai guardando?.
Il cieco con pazienza ha guidato il suo ospite in un viaggio di scoperta, gli ha insegnato a guardare.
L’uomo, come rinnovato da questa esperienza, dice fra sé: tenevo gli occhi ancora chiusi. Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma avevo la sensazione di non stare dentro a niente. Grazie a Robert, il cieco, l’uomo ha imparato che cos’è la vera vista: quella che guarda oltre le distanze, quella che ti prende per mano e ti guida.
Ecco, un buon maestro deve saper fare questo: insegnare a guardare, a dirigere lo sguardo su ciò che davvero conta, il sogno, l’ideale, perché è bello come una cattedrale, saldamente ancorata a terra, ma con le guglie rivolte al cielo. Sì, “guardare”. Del resto, a vedere sono bravi tutti.
E, certo, una LIM non aiuta a sognare.
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