Letteratura
“Ragazza, donna, altro” di Bernardine Evaristo: 12 donne per capire il mondo
Il verso preferito da Winsome suona così: «noi donne / di cui nessuno canta le lodi / di cui nessuno ascolta le voci». Parole semplici, dirette, apparentemente rassegnate, profonde, di una poetessa guyanese che si chiama Grace Nichols. Winsome è una delle dodici protagoniste – meglio sarebbe dire voci – d’un romanzo – ma anche qui meglio sarebbe dire fusion fiction – abbastanza strordinario: “Ragazza, donna, altro”, di Bernardine Evaristo, traduzione di Martina Testa, edizioni Sur. Ed è con queste cinquecentoventi pagine che Evaristo ha vinto il più importante premio letterario britannico, il Booker Prize. Già, perché tutte le ragazze-donne-altro, e le comparse maschili, e ovviamente chi le/li racconta, sono inglesi. Per lo più nere, ma non solo. Per lo più old o new femministe. Chi più chi meno, comunque radical. Lesbiche, etero, lesbiche e etero allo stesso tempo. Progressiste, conservatrici, sognatrici di rivoluzioni. Madri. Non madri. Madri per scelta. Plurimadri per caso, o per sfiga. Commistioni di identità, commistioni di classi e culture. Ascensori sociali che in alcuni casi hanno funzionato e in altri no. Evaristo le porta a paradigma degli esclusi, degli immigrati, della working class. Di quel teatro nero anni ’80 londinese che ha lavorato carsicamente fino a riuscire a far emergere alcune icone di queste situazioni particolari rispetto al pubblico bianco e inamidato ch’è poi la realtà.
Fusion fiction dicevo. La punteggiatura, la struttura visiva della pagina, gli a capo sono quelli del componimento in versi, ovvero sembrano, ricordano la poesia, eppure sono prosa, prosa pura, una tela avvincente e mischiata, fusa appunto, vien da dire meticcia, dove in quel meticciato il carattere predominante è fuor d’ogni dubbio il nero, e non solamente nel colore della pelle. Un nero che a sua volta è intreccio di origini geopolitiche tra loro lontane. Per amalgamare storie e sentimenti l’autrice usa con grande maestria tre ingredienti base: l’umorismo, l’emozione, la passione. In un arco temporale che va dall’inizio del Novecento fino a oggi. Dodici esistenze: Amma, Yazz, Dominique, Carole, Bummi, LaTisha, Shirley, Winsome, Penelope, Megan/Morgan, Hattie, Grace. Dodici storie, dodici destini: lotte per essere accettate, fughe dall’oppressione, fatica fino all’annientamento per una vita dignitosa. Insomma donne guerriere. Guerriere di epoche differenti, generazioni differenti, ottiche e identità differenti, plurali (in sociologia si direbbe intersezionaliste) che ogni protagonista ha nei confronti della classe, della razza, del sesso e delle opportunità. Ha detto qualcuno, forse proprio Bernardine, che se il libro fosse idealmente un teatro, le donne ne calcherebbero le scene e vi danzerebbero sopra nude. Senza pudori, con lacerante onestà e i limiti dell’umano ch’è pieno di difetti, cedimenti, turbamenti, contraddizioni.
Come la sera della prima al National Theatre di “L’ultima amazzone del Dahomey” della regista lesbica Amma Bonsu. Proprio lei, Amma, probabilmente la protagonista del libro che non ha protagoniste però. Poiché protagonisti sono i dodici corpi di donna. Longilinei. Grassottelli. Smagliati. Mestruati. Esibiti. Protetti. E i pensieri, le passioni, le tristezze e le gioie che suscitano nelle dodici amazzoni. Donne. Mogli. Amanti. LGBT. Poliamorose.
Conclusioni – di un uomo e quindi con molte probabilità sbagliate o inappropriate. I loro disagi di donne, di nere, di lesbiche, di LGBT, di etero in un mondo come l’attuale sono i nostri disagi di esseri umani insicuri, a cavallo di ere sconosciute e illuminano debolezze che noi non abbiamo il coraggio di portare alla luce.
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