Letteratura

Raffaella Romagnolo -Aggiustare l’universo- Finalista Premio Strega 2024

30 Giugno 2024

Raffaella Romagnolo – Aggiustare l’universo– Mondadori 2023

Il romanzo che abbiamo appena finito di leggere con un senso di oppressione sempre più crescente non solo per la densità della foliazione (quasi 350 pp), sembrava non finire mai per altre ragioni che la lunghezza, soprattutto per l’elaborata costruzione del plot e del testo redazionalmente inteso, ossia per alcune scelte stilistiche di fondo di cui diremo. Ci ha angosciati anche qui (come per il romanzo di Voltolini) la ricezione adeguata da dare al “tema importante” che in questo caso è anche la “buona causa” ossia la rinarrazione simpatetica della orribile persecuzione dei nostri connazionali di religione israelitica sotto il fascismo cui, da lettori de “Il giardino dei Finzi Contini”, non è stato difficile dare fin da subito la nostra sincera partecipazione emotiva di cittadini, ma che non è bastata a uncinarci ahimè in quanto lettori. È come dichiararsi totalmente d’accordo col tema della “Capanna dello zio Tom”, eppure non reputarlo un romanzo, per fattura e stile, da indicare come modello esemplare.

È di scena la esperienza umana e professionale di una giovanissima maestra elementare, Virgilia detta Gilla, che nell’autunno del 1945 raggiunge dalla natia Genova la località di Borgo di Dentro (toponimo incerto che pare corrispondere a un quartiere di una non meglio identificata cittadina del Monferrato in cui l’autrice suole inscenare le due trame romanzesche, un po’ come la Verrières di Stendhal) per l’inizio del primo anno scolastico alla fine della seconda guerra mondiale. S’impone con l’arrivo della bambina Francesca Pellegrino in realtà Ester Sacerdoti, bimba straordinariamente intelligente ma murata in un silenzio tetragono per il trauma subito, sotto i colpi delle leggi razziste del 1938 che colpirono la nostra comunità ebraica.

Il capitolo che introduce il personaggio di Francesca Pellegrini, alias Ester, è di un manierismo esasperante in quel volgere i tempi all’infinito e nell’indugiare nell’anonimato di lei (“la bambina” chiamata con stile reticente e il cui nome verrà svelato come architrave di questo segmento narrativo solo alla fine) ma con una sovrabbondanza di dettagli estenuante che fanno cumulo (e noia) e come visti attraverso la solita webcam ficcata all’interno del suo sguardo. Una procedura stilistica involuta e criptica nell’introduzione di un personaggio. Ma all’ indugiare in tutti questi dettagli superflui («la teoria di porte chiuse, il cipiglio delle sovrapporte» – il cipiglio?) si aggiunge si aggiungerà lungo tutto il testo un realismo enumeratorio e incolore. Siamo qui a un decimo del testo ma ancora all’introibo ad altare Dei. Così si fanno oltre trecento pagine come niente. Come non sarà difficile verificare ai maratoneti della prosa, questa sembra una narrazione solo in superficie, ma che in sé non ha la compattezza e l’esemplarità del grande racconto. Che qui è la vicenda della famiglia Sacerdoti nei due rami che fanno capo a Abram e a Raffaele (c’è uno sviluppo francese che culmina nell’esecrabile rastrellamento di ebrei del Velodromo d’Inverno – la Rafle du Vel’ d’Hiv di cui abbiamo letto angosciati altrove da liceali sotto indicazione della nostra Madame Caputo, insegnante di francese).

Il libro è un montaggio di pezzi narrativi e non, assemblati o montati secondo una logica compositiva tutta propria e non certamente in consecuzione ma a puzzle (come nel romanzo della Di Pietrantonio) con analessi frequenti e arresti narrativi ed esibizione di documenti più eterogenei: estratti della Gazzetta Ufficiale, articoli de “La Stampa”, il corredo di Ester… Insomma con non poche complicazioni testuali, perché evidentemente le sole buone intenzioni del testo non bastavano a uncinare il lettore. La qualità della scrittura è da Premio Strega dell’ultimo lustro: senza sorprese. Si fa fatica a essere ingaggiati nella scrittura di questo testo (e non per i fatti narrati che in sé e per sé hanno tutta la nostra verminosa esecrazione), che è tra l’altro diligente e assennata con le sue robine a posto, in stile narrativo classico senza errori (salvo il presente storico che non troviamo acconcio all’affabulazione evocativa, ma sono affari nostri, l’artista è libero di srotolare le sue stoffe sul banco come meglio crede) ma anche senza sobbalzi espressivi, con il fiuto per le buone occasioni narrative, dove si trova posto per lo slargo narrativo delle sei-pagine-sei del parto di una gatta (che avrá la sua implicazione finale e si veda a tal proposito il gatto in copertina, ma è anche una strizzata d’occhio a tutti i lettori “gattolici” che sono un esercito), pagine che occupano un intero capitolo e francamente sembrano s-centrate per quel che si ha da narrare.

Si aggiunga che essendo un romanzo storico il lavoro di documentazione sottostante si nota (c’è il lanital ossia la lana di regime? sì c’è, e le lampade a carburo? si certo, anche la tessera annonaria ovviamente) anzi è esibito, inserito nel corpo del testo come l’orrido decreto legge razzista anti-ebrei del 1938 e tutti i provvedimenti successivi degli anni ’40, nel caso i giovani lettori nulla sapessero.

Anche qui, si diceva, come nel manufatto della Di Pietrantonio, emerge il ricorso al presente storico, alle frasi spezzate, alla punteggiatura serrata, al ritmo sincopato: la negazione dell’affabulazione narrativa secondo il nostro parere, ma evidentemente deve essere una epidemia tra autori ed editor. Il presente storico alla Giulio Cesare è come una molesta webcam che fissa in frame inerti la narrazione e non le dà sfondo evocativo e favolistico.

Tomasi di Lampedusa scriveva in una sua lettura de “Il rosso e il nero” raccolta nel suo Meridiano : «In un romanzo ci dovranno particolarmente interessare il modo di esprimere il tempo, di concretizzare la narrazione, di evocare l’ambiente, di trattare il dialogo; questi, dopo tutto, sono fatti che offrono una possibilità di studio. È come smontare un orologio: osservando nel loro giusto ordine le mollette, le ruote dentate, gli scatti, le viti ed i perni vi renderete conto di come avvenga il movimento. Potrete anche provarvi a rimontare l’orologio e questo si metterà a camminare se… se avrete un vostro tempo da far segnare alle lancette. Questa però è una condizione che nessuno potrà aiutarvi ad adempiere. O c’è o non c’è». E qui purtroppo non c’è. O meglio c’è solo la superficie esterna, fenomenica, manca quella interna, noumenica. Il romanzo lo è solo per sé non in sè.

Insomma romanzo volenteroso, di accorata intonazione civile, con momenti di ricognizione documentaristica sulla tragedia dell’ascesa del nazifascismo nel vecchio continente, sicuramente inattaccabile nei buoni propositi e nei sani principi (che sono i nostri!) ottimo per una perorazione politico-morale, esibisce il tratto delle convinzioni giuste tra convertiti, e noi siamo assolutamente tra costoro, convertitissimi!, ma romanzo anche, per la scelta tra documenti e narrazione e costruzione a incastri del plot, lontano dalla letteratura che ci piace, quella che rimesta le viscere, che interroga e sconvolge. Non gli manca certamente l’intenzione ma l’esecuzione, la messa in tensione del materiale narrativo ed emotivo. Romanzo inattaccabile sì ma non invoglia certo a una rilettura come i romanzi della vita. Inattaccabile come storia documentata, perdibile come romanzo, perché ucciso dalle buonissime intenzioni. Il romanzo che ci piace è il luogo in cui trionfa l’ambiguità, il male mischiato al bene, l’esecrazione dell’adulterio ma anche gli inconfessabili piaceri che produce, il villain con le sue malefatte ma anche con la seduzione che genera in corpo al lettore che vede in lui una simpatica canaglia, la screziatura e l’obliquità della vita, come fa il poeta Acheo che si commuove della sorte dell’eroe teucro Ettore che di lì a poco farà massacrare senza pietà, insomma l’ABC della verità del romanzo e della sua contestuale menzogna. Per la verità vera c’è la storia e soprattutto il supremo tribunale della propria coscienza. Per tutto il resto c’è la letteratura e il romanzo, la sua menzogna, la sua verità.

Qui c’è la proposta frontale del bene e l’esecrazione del male. Ed ecco che tale giusta indicazione ci fa ricordare un fatterello di tanti anni fa raccontato da Beniamino Placido su “Repubblica”. Questo: quando Placido era al liceo, nei perduti anni ’50, era in discussione lo statuto di Trieste subito dopo la guerra. Forte era il movimento nazionalista degli italiani che reclamavano l’italianità della città alabardata. Ma il programma scolastico non si arrestava per questo, il professore di liceo incalzava gli studenti e procedeva alle sue sante interrogazioni. Come si sottraevano gli studenti un po’ pigri alle interrogazioni? Quando era il loro turno, e si trovavano impreparati, se ne uscivano urlando a squarciagola: “Trieste libera! Trieste italiana!”. Eh già, chi poteva dire il contrario? Quale prof poteva ancora interrogare davanti a una dichiarazione così patriottica, così santa, così giusta? Trieste libera! chi non è d’accordo? E chi non può non detestare quell’infame ibleo di Telesio Interlandi direttore de “La difesa della razza”, giornale qui ampiamente citato con le vignette sconce riprodotte nel testo? Premesso che Trieste sempre libera e italiana dovrà essere, per carità!, quando ci interroga la realtà a noi piace che si risponda con la letteratura, la sua finzione la sua realtà, la sua menzogna, la sua verità, e la sua ambiguità. Il romanzo, la letteratura non stanno necessariamente dalla parte del bene e men che meno lanciano messaggi: rappresentano le contraddizioni e il dramma del reale.

Ci si chiederà perché quel titolo. Con la locuzione “aggiustare l’universo”, ebbene, si fa riferimento a una frase pronunciata da Michele (il fidanzato) a Gilla, che sta costruendo un planetario con palline di cartapesta. È una frase che gira attorno alla grande speranza, aspettativa, esortazione, programma – da professoressa democratica – di voler sanare il mondo, di volerlo liberare per sempre dal male. E chi vorrà invece contrapporle giunti qui quest’atomo opaco del male che è tuttora il nostro mondo?

Il libro è un collage di testi eterogenei si diceva. Ci sono tra questi, rimuginate dalla maestra Gilla alcune lezioni immaginarie sui pianeti con il classico, alla Alberto Angela, “Pensate”! Ecco il brano «Giove è un pianeta lontanissimo e gigante. Pensate: 1316 volte il volume della Terra!». Abbiamo pensato e abbiamo chiuso irritati il libro

Vabbè direte, è una interiezione lanciata a bambini, anche a noi lettori bambinizzati, onde destare la curiosità. Le lezioni immaginarie sui pianeti che inframezzano la narrazione restano tuttavia devastanti. Si ha voglia di scappare non si sa dove piuttosto che ascoltarle. Dovrebbero avere un significato tutto proprio all’interno dell’economia del testo, che tuttavia ci sfuggono e verso cui non abbiamo alcuna voglia di approfondire.

Emergono dalla lettura giri di frase volenterosi come questo. «Dal basso, la preghiera sobbolle e sale e penetra in ogni interstizio come un miele caldo.» Similitudini come questa «le bombe come enormi uova distruttive». Pezzi ispirati come questo infine ci colpiscono e ci affondano: «I ricordi sono come gli anelli di una catenina d’oro, uno attaccato all’altro, ma una catenina è una cosa molto delicata e quando ce l’hai al collo devi fare attenzione a non strapparla e questo vale anche per i ricordi ». Com’è vero!

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Finalisti Premio Strega 2024

– Tommaso Giartosio – Autobiogrammatica
urly.it/3a8yy

– Antonella Lattanzi – Cose che non si raccontano urly.it/3_y7d

– Antonella Di Pietrantonio – L’età fragile urly.it/3abqq

– Dario Voltolini – Invernaleurly.it/3agyq

– Paolo Di Paolo- Romanzo senza umani urly.it/3am9y

– Chiara Valerio – Chi dice e chi tace urly.it/3as4d

– Raffaella Romagnolo  – Aggiustare l’universo urly.it/3awj3

 

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