Costume
La crisi dei competenti raccontata da Raffaele Alberto Ventura
Alla fine la storia si ripete: l’estate è arrivata, i giorni di lock down sembrano appartenere a un remoto passato, la paura dei contagi dileguata e, soprattutto, le riflessioni, abbozzate nelle buie serate invernali, su possibili nuovi scenari per una società arrivata sul punto del collasso svanite nel nulla. O quasi. Mentre una larga parte del dibattito pubblico è popolata da pareri e opinioni di chi prova a mettere una pezza alla situazione attuale, nel tentativo di far tornare “tutto come prima”, c’è chi ragiona di scenario globale e, attraverso un percorso storico, sociologico, filosofico e politico, prova a delineare il perimetro di una crisi ormai endemica al sistema.
Radical Choc – Ascesa e caduta dei competenti, l’ultimo saggio di Raffaele Alberto Ventura, edito Einaudi, porta avanti proprio questa riflessione e lo fa usando un punto di fuga specifico, quello della classe dei competenti, ovvero la categoria che, stando alla tesi dell’autore, sta vivendo (e di conseguenza impattando in modo rilevante a livello sociale) una crisi di credibilità e di ruolo capace di riflettersi sull’intero sistema.
A partire da un excursus storico sulla gestione del potere e del rapporto fra classe dirigente e società – ma anche fra centro e periferia, fra maggioranze e minoranze – che affonda le sue radici nel medioevo per arrivare alla crisi borghese del secolo scorso, Ventura accompagna il lettore sulla strada che ci ha condotto all’affermazione di una classe, quella dei competenti, che ha basato (e per certi versi tutt’ora basa) il suo posizionamento sociale sull’acquisizione di titoli culturali o formativi, sulle competenze appunto che, al pari del titolo nobiliare un tempo o del possesso di un determinato patrimonio economico, ne definisce il ruolo di guida e riferimento. Ascesa e caduta recita il titolo, perché la classe dei competenti oggi è in crisi: lontano ormai il riconoscimento sociale di cui ha goduto nei decenni scorsi, altrettanto lontana la capacità di “tenuta” del patto sociale instaurato con una popolazione alla quale garantire, in cambio del rispetto, sicurezze contro i rischi della vita di tutti i giorni.
Una crisi endemica perché auto generata dal sistema, che ha sempre “scaricato” i problemi di un settore sull’altro, rispondendo ad esempio alla crisi economica con un abbassamento del costo del lavoro e quindi generando problematicità nell’ampio settore del welfare, così come sull’ambiente, spingendo su una sempre maggior produzione, a dispetto degli evidenti segnali di crisi in termini di risorse non rinnovabili e di tossicità della produzione. Tutto si tiene ricorda Ventura e tutto si gioca intorno alla capacità – o incapacità – di chi si trova in posizione di guida, di garantire benessere e sicurezza nei “guidati”. Quando l’equilibrio non regge si genera malcontento, sfiducia e da questi nasce, quasi fisiologicamente, un atteggiamento populista, che a sua volta trova in una fetta di competenti insoddisfatti i suoi riferimenti culturali.
Attraverso capitoli densi di riflessioni e riferimenti storici e teorici Ventura cerca di dare al lettore qualche strumento in più per comprendere il presente e orientarsi in un mondo nel quale, complice il colpo finale della pandemia, ogni certezza sembra essere saltata.
Abbiamo fatto una breve chiacchierata con l’autore per raccontare qualcosa di più su questo suo ultimo lavoro.
Radical Choc arriva dopo altri due libri – Teoria della classe disagiata e La guerra di tutti – che possono in un certo modo essere definiti come una “trilogia” sulla società contemporanea. In Radical Choc si sistematizza il ragionamento sulla crisi contemporanea, con riferimenti storici, sociologici, filosofici e di teoria politica, arrivando a proporre un quadro, ampio e articolato, di quelle che sono state le premesse (i germi di crisi) del sistema ben prima della pandemia da Covid 19. Com’è nata la volontà di procedere, dopo due saggi di argomento più circostanziato, a questo quadro di insieme?
Ho scritto il mio primo libro partendo dalla mia esperienza personale, dal sentimento che le cose che avevo studiato (chessó la filosofia o le dispute teologiche) non fossero banalmente inutili rispetto al lavoro che facevo, ma addirittura nocive perché mi avevano trasformato in un essere perennemente insoddisfatto e fuori posto. Nel corso delle mie ricerche mi sono accorto che quel tema di riflessione era ricorrente, sia come topos letterario (in Checov, in Balzac, il giovane di belle speranze deluso) che come argomento politico, di marca spesso conservatrice, che consiste nel denunciare la sovraistruzione perché produce masse d’individui delusi. Ma nel mio caso a lamentare i danni della sovraistruzione non era un intellettuale che voleva difendere la propria rendita di posizione dall’esercito di riserva dei sovraistruiti, bensì un membro di quell’esercito, che questo disagio lo viveva sulla propria pelle, e che parlava (pur duramente) di sé. A furia di studiare il problema mi sono convinto che questa dinamica di produzione delle competenze, che caratterizza i processi di modernizzazione, ma che nello stesso tempo genera continui scarti e attriti, sia davvero una delle chiavi di lettura più interessanti per capire i grandi rivolgimenti politici. E ho voluto scrivere questo libro, Radical choc, che descrive il meccanismo, come funziona e come disfunziona, sul lungo periodo. Dietro il disagio avevo trovato una legge storica inesorabile, per così dire, che porta ogni società a divorarsi da sola a forza di volersi rendere sempre più competente.
Nel tuo libro parli di crisi della classe dei competenti. Una crisi personale – di riconoscimento sociale, di posizionamento, di aspettative – e collettiva, in quanto la società, che non riconosce più l’autorità dei competenti, si ritrova in una condizione di mancati punti di riferimento. Secondo il tuo excursus storico l’intera “tenuta” del potere nei secoli si è basata sul compromesso fra accettazione da parte dei governati delle scelte dei governanti (che fossero sovrani, monaci, borghesi) e beneficio della sicurezza garantita da questi ultimi contro il rischio. Ora sembra che il sistema non riesca più a offrire queste garanzie, con la conseguente crisi di fiducia di cui si parlava prima. Da dove ha origine questo scenario che ora più che mai, in fase pandemica, sembra essere diventato esplosivo?
Per farle breve individuo nel Leviatano di Thomas Hobbes, nel Seicento, la figura mitica di uno scambio tra sicurezza e potere che non è soltanto centrata sulla sicurezza fisica, intesa come incolumità, ma sulla sicurezza intesa come certezza (la scienza, il calcolo del rischio) e la sicurezza come prosperità e comfort, tutte prerogative che nel corso dei secoli verranno assorbite dallo Stato e/o da una classe istruita e specializzata di competenti, alla ricerca di una sicurezza sempre più grande. Questo fa di noi degli individui dipendenti dalla competenza, incapaci di vivere se non all’interno di un complesso sistema di divisione del lavoro del quale il sistema educativo-universitario è elemento essenziale. Ma come dicevo si tratta di uno scambio, e il problema centrale che si pone è garantire che ogni surplus di sicurezza sia commisurato al suo costo sociale: spesso non è così, nel libro faccio l’esempio delle politiche antiterrorismo. Sul covid il dibattito è aperto, anche se ovviamente molto violento. Nel libro sostengo che ogni società entra in crisi quando la sicurezza che tenta di produrre costa più di quanto rende, e generi più insicurezza di quanta ne cancelli.
Un altro tema interessante è quello dei “beni posizionali” che nel tempo si sono trasformati da beni materiali in “attestazioni di competenza”. Lauree, master, dottorati e studi specialistici sono stati, per un certo periodo, il lasciapassare per l’accesso alla “classe dirigente”, alla quale era riconosciuta autorevolezza, ma anche una condizione privilegiata a livello sociale. Ora che il sistema è entrato in crisi profonda, come si giustifica – a tuo parere – il prosieguo di un “inseguimento del titolo”, per cui molti giovani, a prescindere da vocazioni personali, ritengono necessario percorrere determinate strade per conseguire “il titolo”?
Il titolo resta ahinoi fondamentale e lo sarà sempre di più, in quanto porta d’accesso al mercato del lavoro e magari a una piccola elite. Per questo Randall Collins parlava di “società delle credenziali”. Più è complessa la società, più è alto il grado di divisione del lavoro, più c’è tecnologia e burocrazia, più è inevitabile che si sviluppi un sistema di credenziali, di credito sociale come in Cina o di “pass” come ora per il Covid, per rendere efficiente il coordinamento degli agenti sociali e delle forze produttive, il governo dei vivi. Questa è una tendenza storica inesorabile, che a parte sussulti e parentesi vediamo all’opera da due millenni, dall’invenzione romana dello Ius, forse persino dal platonismo che inaugura un grandioso progetto di categorizzazione del mondo e quindi la storia della “civilizzazione”. Ma tutto questo evidentemente ha delle conseguenze nocive, a partire dal conflitto improduttivo per l’accesso alle risorse simboliche, che porta a ingenti sprechi di risorse per riprodurre le competenze, e quindi produzione di scarti sia umani che ecologici. La civilizzazione lascia dietro di sé questo cumulo di scorie e si è sempre illusa di poterlo gestire e valorizzare, ma oggi pare farlo con sempre maggiore fatica.
In chiusura del tuo saggio (senza dare eccessive anticipazioni) prospetti una serie di possibili scenari futuri legati alla crisi della classe dei competenti. Uno di questi è una sorta di “rivoluzione” legata all’unione d’intenti, in una causa comune, dei competenti con quella fetta di popolazione che, generalizzando ovviamente, può essere definita come populista. Lo ritieni uno scenario plausibile e su quali temi potrebbe avvenire questa “alleanza”?
Parlavo sopra dei sussulti della storia, che possono sembrare dei passi indietro in questo processo di civilizzazione/modernizzazione ma si rivelano più spesso come momenti di “distruzione creatrice” in cui il processo viene riavviato su una scala più importante dopo essere entrato in crisi per via dei suoi rendimenti decrescenti. Poiché da mezzo secolo le economie occidentali sembrano essere entrate in una crisi inesorabile, determinata anche dall’ipertrofia dei loro organi regolatori senza i quali tuttavia non potrebbero sussistere, è inevitabile che sorgano tensioni (all’interno) e nuovi attori (all’esterno). Ogni problema si può risolvere spostandolo altrove, e una crisi può sempre essere evitata, pagandone il prezzo. In Italia, schiacciando il costo del lavoro o esternalizzandolo sui patrimoni privati. Un sussulto populista potrebbe giungere, ma alla fine, sul lungo periodo, quello che davvero determinerà l’avvenire del paese sarà il posizionamento geopolitico tra USA, Cina e Germania.
Ph. creditz luz.it; illibraio.it
Devi fare login per commentare
Accedi