Letteratura

Qui e adesso

30 Aprile 2020

El objeto que tienes en las manos no es un libro, sino una grieta en la realidad. Personas de un lado y otro la cruzan sin saber adónde llegan, per con la certeza de que ya es tarde para regresar. Distopías, fenómenos paranormale, ciencia ficción e incluso la cotidaneidad del siglo XXI son el escenario perfecto para sacar a luz lo más escondido del ser humano.

(L’oggetto che tieni tra le mani non è un libro, ma una crepa nella realtà. Persone da un lato all’altro l’attraversano senza sapere dove arrivano, ma con la certezza che è ormai tardi per ritornare. Distopie, fenomeni paranormali, fiction scientifica e compresa la quotidianità del secolo XXI sono lo scenario perfetto per portare alla luce ciò che c’è di più nascosto nell’essere umano).

Risvolto di copertina di Demasiado tarde para volver, Barcelona, RIL editores, 2919, raccolta di brevi racconti, folgorazioni, Baudelaire avrebbe detto fusées, dello scrittore spagnolo Miguel Ángel Hernández.

FUTURO

Estamos llegando. Ya sabes lo que hay que hacer. Cierra los ojos y no hagas caso a nadie. Y, sobre todo, oiga lo que oigas, no pares de correr.

Miguel Ángel Hernández, Demasiado tarde para volver, pag. 108

(Stiamo arrivando. Sai già ciò che c’è da fare. Chiudi gli occhi e non badare a niente. E, soprattutto, qualunque cosa tu ascolti, non smettere di correre.

Miguel Ángel Hernández, Troppo tardi per tornare, pag. 108

Miguel Ángel Hernández insegna storia dell’arte nell’Università di Murcia, interessante e bella città a sud di Valencia e al confine con l’Andalusia. Ha già scritto tre romanzi, Intento de escapada, 2013, El instante de peligro, 2015, El dolor de los demás, 2018. Il primo è stato tradotto in italiano da Elisa Tramontin per le edizioni e/o nel 2015, con il titolo Tentativi di fuga (non si capisce perché il singolare, intento, del titolo spagnolo sia diventato in italiano un plurale, tentativi). Ha aperto un blog, No (ha) lugar, visitatelo, è stimolante, e ha scritto diversi saggi sia d’arte sia di letteratura. Parallelo al suo terzo romanzo è un diario che ne registra la nascita e il percorso, Aquí y ahora, Madrid. Fórcola ediciones, 2019.

Aquí y ahora. Qui e ora, hic et nunc. “Se il senso del romanzo era la trasformazione della letteratura in realtà, il diario intraprese il cammino contrario: la conversione della vita quotidiana in letteratura”, scrive Hernández nell’introduzione (prólogo). Accomuna i due testi, il romanzo e il diario, e in fondo l’intera produzione del giovane scrittore spagnolo, ciò che si dice nel risvolto di copertina della plaquette: la scrittura usata come uno scalpello che apre “crepe nella realtà”. Scavare, estrarre ciò che non si vede, che non si può, ma che spesso anche non si vuole vedere. In una pagina del diario lo scrittore denuncia aspramente la tentazione alla quale induce l’industria culturale odierna e alla quale cedono facilmente gli scrittori, soprattutto quelli delle scuole di scrittura: di attirare il consenso dei lettori assecondandone i gusti, le predilezioni, il bisogno di conforto, di rassicurazione, di trovare nel libro una conferma al proprio desiderio di superamento di ciò che dispiace, addolora, disgusta. Lo scrittore, invece, deve fare proprio questo: dispiacere, addolorare, e se si vuole perfino disgustare il lettore, demolirne le illusioni, gli accomodamenti, e mostrare invece la vera faccia della realtà, anche se ributtante, anche se mostrarla toglie tutte le certezze, le comode e rassicuranti abitudini. Ma questa operazione di svelamento, di denudamento della realtà non va condotto, si badi, per spaventare il lettore, per eccitarne magari i gusti malsani, bensì per incitarlo a guardare in faccia le cose, a guardarle, finalmente, senza l’edulcoramento di un facile e convenzionale ottimismo, di un occultamento ipocrita e menzognero del male che vi si annida. Ecco quindi che nei brevi racconti l’incubo non è scansato, ma guardato, narrato.

“Sognò che si svegliava. E in quel sogno non poté mai più tornare a dormire (Intrappolato)”.

“L’aereo si schiantò con centoquindici passeggeri a bordo. Quando vide la notizia alla TV, sospirò sollevato. La notte prima qualcosa gli aveva detto che non doveva salire su quell’aereo. La notte dopo quello stesso qualcosa si presentò nella sua stanza. Lo accompagnavano centoquattordici. Ed erano venuti per restare (Premonizione)”.

“Dopo un lungo periodo, oggi sono tornato a vedere la mia faccia in uno specchio. E’ stato fugace, appena un secondo, il tempo che ha impiegato la stecca ad attraversarmi il cuore (Rincontro)”.

“Ha sempre avuto paura degli specchi, soprattutto quando compare il signore calvo senz’occhi che imita tutti i suoi movimenti (Rincontro II)”.

Talora si rasenta la bestemmia: in un paese cattolico come la Spagna, avrà un senso.

“ ‘E se nel fondo tutto questo non fosse nient’altro che una farsa?’ chiese disperato a suo Padre.

Non ottenne nessuna risposta.

Fu allora quando, dopo avere guardato verso il cielo, disse: ‘Si è compiuto’ (Profezia)”.

“Dopo avere bruciato la croce, il pescatore trovò tra le ceneri lo scheletro di una piccola colomba. Dell’altro corpo non restava niente (Risurrezione)”.

Infine l’incubo di un delitto inspiegabile:

“Tutte le notti la stessa storia. Il marito entra in cucina, la butta per terra e l’accoltella più volte. Poi, come se non fosse successo niente, lei si alza, mette in ordine laca e pulisce le tracce di sangue. Non sa perché continua a succedere. L’unica cosa che gli è chiara è che deve pulire con cura. I bambini non devono accorgersi di nulla (Destino)”. C’è il racconto da cui è tratto il titolo del libro: “Uscì per alcuni minuti a fare una passeggiata. Dopo un po’ guardò l’orologio. Il tempo era volato. /Troppo tardi per tornare (Tempus fugit)”.

 

Si può pensare a Bunñuel, a Miró, ma anche a Kafka. O al Bartleby di Melville, citato in qualche punto. E tuttavia sarebbe fuorviante. Questi brevi racconti, o piuttosto visioni, sono, appunto, crepe, un passaggio non già dal reale al sogno o all’incubo, bensì dal reale al reale, dal reale dell’esperienza quotidiana, al reale che supponiamo, temiamo, immaginiamo, che ci attraversa improvvisamente il cervello, un reale vero, tangibile, evidente quanto l’altro, quanto quello che chiamiamo e riteniamo reale. Chi sa quanti si saranno sorpresi almeno una volta, o più di una volta, a immaginare con terrificante evidenza il proprio salto dall’alto di una torre o di un ponte, il petto dell’amato o dell’amata squarciato da una coltellata, o mentre si sta alla guida dell’auto vedersi spalancare alla fantasia la scena di un incidente, l’auto fracassata, il proprio corpo maciullato. Di solito ci si ritrae immediatamente da queste folgoranti e raccapriccianti visioni. Spaventati, ci si consola che è solo immaginazione. Ma se ne scrivo, se le racconto, queste immaginazioni, ecco che si distaccano da me, si fanno realtà e realtà separata sulla quale ho le stesso potere che ho sulla realtà quotidiana che vivo, cioè nessuno: è una realtà autonoma, indipendente dalla mia volontà, non posso modificarla, devo accettarla com’è. La scrittura, infatti, ha il potere di rendere realtà tutto ciò di cui parla. Perché essa stessa è realtà. Lo è a tal punto che lo scrittore è quasi guidato da essa, non è lui a decidere che cosa debba compiere il personaggio, ma il personaggio a suggerirgli, anzi comandargli di compiere ciò che vuole compiere: fammi fare questo, fammi fare quello. E non c’è modo che lo scrittore possa intervenire. Goethe avrebbe forse preferito di non condurre Werther fino al suicidio. Ma Werther glielo ha imposto: mi ammazzerò. C’è un bellissimo romanzo di Miguel de Unamuno, Niebla, nebbia, nel quale alla fine il personaggio va a trovare lo scrittore nel suo studio per dirgli che si rifiuta di morire. Ma Augusto Pérez muore lo stesso. Lo scrittore è come Dio, può decidere la morte dei suoi personaggi, ma non può resuscitarli, ma soprattutto non può decidere di non farli morire se il personaggio deve morire. Così anche riguardo alla morte, una volta che l’uomo di carne e ossa (il personaggio è carne e ossa di finzione) viene al mondo, Dio non può impedirne la morte, proprio come lo scrittore non può impedirla all’uomo della finzione. Il romanzo fu scritto nel 1907 e pubblicato nel 1914. I Sei personaggi in cerca di autore di Pirandello sono del 1921. Parallelamente si può fare riferimento alla silloge poetica El Cristo de Velázquez. Anche Unamuno trascorre, attraverso la scrittura, da un piano all’altro della rappresentazione del reale, dalla pittura alla poesia. Se Dio è Parola, la poesia è la rivelazione della parola. Scrivere poesia non è tendere alla bellezza, ma esplorazione del reale: e il reale è parola, scrittura. Almeno per l’uomo. Da questo punto di vista si può capire la solo apparente blasfemia dei due racconti brevi che Hernández inserisce nella plaquette: Profezia e Risurrezione.

 

Le folgorazioni di questi raccontini, di queste fantasie si fanno, infatti, riflessione, meditazione nell’altro libro, Aqui y ahora, qui e adesso (la realtà dell’ente per Heidegger). Un diario, dunque, non un romanzo o una raccolta di racconti, ma un diario che nella mani dello scrittore diventa esso stesso un esercizio di scrittura. La scrittura dell’immediatezza, della registrazione istantanea di avvenimenti, pensieri, associazioni, ricordi contrapposta alla scrittura della mediazione, della riflessione, della distanza, ch’è la scrittura del romanzo. Ma pur sempre scrittura. Hernández afferma, a un certo punto, parlando della mostra di un pittore, dove ha condotto a visitarla i propri allievi, che “l’arte pensa”. Figuriamoci, allora, la scrittura. L’errore per il quale ancora oggi, dopo tanta riflessione sulla natura dell’arte e soprattutto dopo tanti studi di neurobiologia sul cervello umano, ancora oggi da più parti si tende a dividere il lavoro della scienza, della filosofia, della critica, dal lavoro dell’arte, della musica, della scrittura, nasce da un’idea restrittiva di che cosa sia il pensiero. Ssi attribuisce il carattere di pensiero solo al concetto, e solo il concetto sarebbe razionale, il resto sono emozioni, sentimenti, immaginazioni, ma non pensiero. E’ questa un’idea molto ristretta del pensiero. Già Aristotele ci avrebbe a che ridire, lui che trova la tragedia “più filosofica” della storia. Ma sappiamo bene, invece, oggi, che le regioni del cervello preposte all’emozione e quelle preposte all’elaborazione razionale sono contigue, e comunicanti, e il cattivo funzionamento di una fa funzionare male anche l’altra. In realtà qualunque rappresentazione che noi ci facciamo della realtà è pensiero, anche quella che sembra nascere da un’emozione. Ciò significa che non pensiamo la realtà sempre allo stesso modo e non la guardiamo, non la raccontiamo, non la rappresentiamo sempre dalla stessa visuale e con gli stessi strumenti di rappresentazione. Lo scrittore la rappresenta, la racconta, la pensa con il linguaggio. Il pittore con il disegno e con i colori. Ma si rifletta anche che l’arte moderna ha superato queste distinzioni, questi confini; un’installazione, per esempio, si pone come rappresentazione e insieme come riflessione sulla rappresentazione o con la rappresentazione. Chi afferma che questa non è arte ha un’idea restrittiva di che cosa sia l’arte allo stesso modo di chi ritiene che il pensiero sia espresso solo da concetti. I confini, i limiti, invece, non sono netti, nette sono le distinzioni degli strumenti con cui si pensa la realtà, ma qualunque sia lo strumento resta che la realtà è pensata. Come se, del resto, ci fosse poco pensiero, che so, in un ritratto di Velázquez o in un autoritratto di Rembrandt. Lo strumento dello scrittore, si è detto, è la scrittura. Aristotele – è stato il primo a capire come ci si debba orientare in questo ambito – sostiene che senza il linguaggio noi non conosceremmo la realtà. E lo scrittore lavora proprio con il linguaggio. La letteratura è l’arte del linguaggio. La realtà rappresentata, conosciuta attraverso il linguaggio. Il diario procede parallelo alla scrittura del romanzo El dolor de los demás, il dolore degli altri (Anagrama). Ne ho scritto sul mio blog:

http://dionysos41.blogspot.com/2018/06/miguel-angel-hernandez-navarro-el-dolor.html

e su Gli Stati Generali nel giugno del 2018. E’ la storia di un omicidio, un giovane uccide sua sorella e si ammazza gettandosi in un burrone. Il giovane era amico dello scrittore. Raccontare la vicenda, dopo venti anni, è affrontare fantasmi, mostri, che non si erano voluti vedere ed erano stati sommersi. “Il crimine autentico sul quale scrivevo era quello che avevo commesso con il mio passato, con quell’io che era rimasto sepolto nel tempo” dichiara lo scrittore in un’intervista. Il diario, oltre a essere di gradevolissima lettura, si legge d’un fiato, è una miniera di osservazioni sull’arte, sulla letteratura, sugli scrittori spagnoli contemporanei, molti dei quali amici di Hernández, sulle realtà contemporanee, compresa la rete, descritta come cortile scolastico degli adulti (patio de colegio de los adultos). Riflessioni sulla morte che spezzano il cuore e fanno riflettere: “la vita se ne va in un secondo”. Proprio investigando, guardando nella rete si rinnova, un giorno, il dolore della perdita di sua madre. “Ieri è morta mia madre. Ancora non ho cominciato ad assimilarlo. Sono perduto nelle parole. Ho appena la forza di scrivere. Il linguaggio è sterile per tradurre l’esperienza della morte. Dopo nove anni le parole continuano a non riempire il vuoto di senso. Il dolore non è finito. Non c’è modo di trovare logica nel nonsenso.” Ecco, se si entra in quest’idea, in questa materialità del linguaggio che rappresenta la realtà, anche questo diario acquista la concretezza di un romanzo, senza essere romanzo. E’ scrittura, la registrazione del quotidiano, che resterebbe inespresso, forse sconosciuto, se la scrittura non lo portasse alla luce. Una lezione formidabile di che cosa sia, e anzi debba essere, la scrittura. Faticoso esercizio di estrarre il senso della realtà, trasferendolo nelle parole. Vuoto esercizio di esteta se manca la realtà, inutile catalogo di banalità se non c’è il lavoro della scrittura. Miguel Ángel Hernández è un maestro formidabile nell’equilibrare appunto il rapporto che c’è, quando si scrive, tra la realtà e le parole che la raccontano.

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