Giustizia
Quel giorno che incontrai Sciascia
Il prossimo 8 gennaio ricorre il centesimo anniversario della nascita di Leonardo Sciascia, un intellettuale che ha avuto un peso non indifferente nel panorama culturale italiano della seconda parte del secolo scorso. Lo ricorderanno in tanti, ciascuno lo vedrà dal proprio punto di vista o ne sottolineerà alcuni aspetti rispetto ad altri. Personalmente faccio riferimento alla mia memoria per regalare al lettore un ricordo personale, che mi è particolarmente caro.
Era il tempo in cui, soprattutto a Palermo, dopo la peste mafiosa, imperversava il settarismo antimafioso. Un tempo in cui bastava poco per essere messo all’indice da una agguerrita di chierici fatta di giornalisti, scrittoricchi da strapazzo, fanatici di una nuova religione manichea per la quale il pensiero critico equivale a bestemmia.
Anche Sciascia, dopo l’articolo sui professionisti dell’antimafia, era stato preso di mira dagli intolleranti.
Era stato bollato come quaquaraquà, cioè uomo da nulla, degno solo di occupare l’infimo posto della originale scala di valori enunciata da don Mariano Arena, il capomafia, descritto da Sciascia nel Giorno della civetta. Un marchio d’infamia che questi eredi minori di Torquemada, nel loro delirio d’onnipotenza, immaginavano che potesse tagliare la lingua ad un intellettuale che aveva passato gran parte dei suoi anni a testimoniare la libertà di pensiero.
Lo incontrai un pomeriggio mentre stava lasciando il portone della casa editrice Sellerio. Mi feci avanti per esternargli la mia convinta solidarietà. Fu molto parco di parole ma salutandomi, mi regalò una frase rimasta sulla quale ho, in seguito, molto riflettuto.
Mi disse: “Anche questo, passerà!”.
Tre parole, apparentemente convenzionali, ma nelle quali ho letto la consapevolezza matura del fluire della storia della storia, il suo essere intellettuale con i piedi a terra, ma anche la fiducia che la forza della ragione sarebbe in ogni caso prevalsa anche sulla furia oscurantista di chi agitava la forca.
Posso dire che lo Sciascia che amo è proprio questo, l’uomo convinto delle proprie ragioni, collocato in prima linea contro la violenza – non solo fisica ma anche quella morale di cui l’ultimo quarto del secolo scorso ci ha offerto un’immagine tragica –, l’intellettuale militante, con lo sguardo lungo, impegnato a cacciare “i mostri generati dal sonno della ragione” che troppo spesso si annidano anche fra le pieghe di quanto appare buono. L’uomo dedito all’affermazione dei diritti, che si batte per il riconoscimento della dignità dell’uomo.
Un personaggio contro, che desta scandalo così da essere considerato “eretico” e che, come pretendeva Filippo Turati, “reclamava il diritto alla eresia”. Eresia che ne faceva poi un instancabile testimone della verità.
Non a caso Sciascia amava presentarsi in questo modo:
«Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità».
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