Letteratura

Quel borghese di sinistra di Piergiorgio Bellocchio

17 Luglio 2022

Piergiorgio Bellocchio –  Diario del Novecento – Il Saggiatore, Milano 2022

Piergiorgio Bellocchio è stato l’ideatore e direttore dei “Quaderni piacentini”, rivista di cultura che segnò un momento notevole della sinistra riflessiva a cavallo degli anni ’60 e ’90 del secolo scorso. Sono stato un lettore della nuova serie di questa rivista da lui sempre diretta, quella degli anni Ottanta in cui vi scrivevano fra gli altri lo stimato-con riserva Franco Moretti, e gli adorati Alfonso Berardinelli  e Grazia Cherchi.

Piergiorgio Bellocchio è morto due mesi fa e già oggi esce questo poderoso e ponderoso (oltre 700 pp) Diario del Novecento, che occupa gli anni 1980-2000. È il suo Journal alla francese, che si suppone avrà  un seguito. Ma l’autore nelle ultime battute si schermisce

Questo non è un diario né il mio Zibaldone (si licet…) – è un magazzino, un deposito, dove si raccoglie, si accatasta di tutto, senza ordine alcuno, senza criterio: appunti, spunti, materiali abbozzati, semilavorati (utilizzabili per se stessi o potenzialmente, ma non più forse d’un 10%)… e ahimè un sacco di minutaglia, trash…

Lo leggo non consecutivamente, ma random, secondo le mie curiosità e urgenze interiori. Non ne farò pertanto una recensione oggettiva, piuttosto ne mimerò il tono soggettivo e diaristico.

Dopo aver letto le pagine su Pasolini, dove egli esprime con qualche eccezione le sue riserve sul romanziere e sul cineasta …«Quei film sono brutti, senza ritmo. Ma sono anche culturalmente arbitrari e dilettanteschi, ciò che è grave per un intellettuale colto come Pasolini» – passa a lodare il critico, quello per esempio di Descrizioni di descrizioni, che personalmente, da pasoliniano flebile, ho sempre ammirato. Aggiungo che in finale d’opera in una nota dell’anno 2000 Bellocchio riassume il giudizio su Pasolini con queste parole:

«Solo il critico letterario e “politico” è di eccezionale statura, nonostante le lacune, le sommarietà, le disinvolture terminologiche ecc. Ma poi il poeta e il narratore, il cineasta e il sociologo, l’ideologo e il critico militante concorrono a formare un autore unico, lo scrittore più originale, il testimone più forte, drammatico e profondo della cultura e della storia italiana dell’ultimo mezzo secolo.»

Subito dopo ho aperto le pagine degli anni ’90 a caso, mica tanto eh, sono gli anni berlusconiani… E mi ritrovo d’emblée  un giudizio severo su Michele Santoro che non mi sorprende. Bellocchio ha un duetto con una signora-bene che dice di odiarlo, e lui che pure non lo sopporta e lo scrive bilioso e a denti stretti, si chiede se alla stessa signora risultino odiosi anche Ferrara, o Fede, o Funari, o Liguori ecc., o se invece costoro li gradisce…
Cronache di epoche sepolte e dimenticate, ma piccolo episodio questo che dimostra quanto la questione estetico-spettacolare abbia sequestrato le menti e soprattutto abbia spostato sul terreno dei gusti e dei segni (gli spettacoli, la TV, l’estetica di destra e quella di sinistra) e non più sulle idee la contesa politica che dopotutto ha come campo di battaglia la sottostante  questione sociale.
(Quelli attenti al fenomeno specifico ricorderanno però che qui aveva iniziato Gaber, si ricorderà, col caffè di sinistra  il tè di destra, la vasca di destra la doccia di sinistra ecc).

Bellocchio, che aveva un altro voltaggio mentale,  non  poteva essere consentaneo col masaniello televisivo che è incontrovertibile (ma lo penso io), stava preparando col suo appello alla piazza catodica contro il Palazzo, il terreno di coltura dei 5s, ed era piuttosto mobile, infatti passò al campo estetico avverso berlusconiano qualche stagione dopo dimostrando forse così vera l’intuizione di Valerio Magrelli de Il Sessantotto realizzato da Mediaset) né Bellocchio poteva sposare il mortifero e decerebrato palinsesto berlusconiano delle 5 c: calcio, cosce, canzoni, cazzate e consigli per gli acquisti. E perciò rimase come paralizzato, nulla replicando alla signora e masticando amaro.

Ma altri due episodi, diciamo ancora segnici, di semiotica politica o di estetica ideologica se volete, mettono in rilievo il grande travaglio della sinistra  e del suo bisogno, dopo il grande choc della caduta del comunismo realizzato e dello smarrimento sul piano dei vecchi segni e simboli  caduti e infranti   (falce e martello e  bandiera rossa innanzitutto), di trovare su questo terreno, popolare e di massa, dell’immaginario, altri succedanei, ossia nuovi segni e nuovi saldi ancoraggi simbolici da offrire ai militanti. Non siamo ancora nell’epoca del PD (2007), allorché l’amalgama tra Rosy Bindi e Walter Veltroni, faceva mettere sul piatto disinvoltamente (nessuno si stupiva), alla chiusura dei congressi o delle Feste ex Unità,  il disco, o forse il CD, della canzone “Il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano… In quegli anni Novanta di drammatica transizione (gli anni del PDS  e poi DS, ma anche della comparsa al Nord del terribile concorrente della Lega) la confusione regnava sovrana sotto il cielo. La sinistra ex PCI aveva un’ansia, un’angoscia anfanante di modernizzazione, sia sul piano dei mobili (nuove idee che latitavano però) che dei soprammobili, cioè sul piano facile dei simboli (dei simulacri direbbe Perniola),  e qualche slittata fu perciò fatale. E non parlo dell’I care veltroniano di Kennedy o don Milani figure intermedie e condivisibili dagli amalgamati rispetto ai Gramsci e Don Sturzo. Tutt’altro vedremo.

Bellocchio ovviamente registra tutto  ciò con il sopracciglio sinistro inarcato e il con il lapis blu. Due episodi sintomatici dicevo.
Il primo riguarda una Conferenza delle donne del PDS  con il parterre delle esponenti storiche e prestigiose di sinistra: Franca Chiaromonte, Giglia Tedesco, Marisa Rodano, Miriam Mafai e un’altra decina almeno di intellettuali. Ma ecco che “l’Unità” correda l’annuncio della Conferenza con le illustrazioni dei quadri di Tamara de Lempicka, gettando nello sconforto più cupo Bellocchio. Ma come?, si chiede il fine intellettuale vieux jeu,  ma cosa c’entra con la sinistra un’artista come la Lempicka, amica di miliardari, di snob e di D’Annunzio? Non dico fare ricorso alle illustrazioni di Käthe Kollowitz (artista socialista tedesca)

«ma saltare direttamente nell’alta società, nel mondo degli ippodromi, delle Rolls Royce e Isotta-Fraschini, degli alberghi di lusso di Biarritz e Montecarlo, delle prime classi dei transatlantici, delle cacce alla volpe, della roulette, dello champagne, grandi sarti, gioielli… mi pare un passo troppo lungo anche per le gambe delle “nuove” donne Pds. Come sarebbe proporre a modello dell’uomo di sinistra, che so?, Robert de Montesquiou, Gabriele D’Annunzio, il duca di Windsor, Porfirio Rubirosa…».
Un conflitto di simboli estetici, un disancoraggio plateale dal vecchio immaginario, non poteva trovare il suo consenso, tanto più, arguisco io, che su quel terreno (simboli e immagini) Berlusconi colpiva duro con le sue TV sotto la cintola le grandi masse ex comuniste.

L’altro episodio riguarda un personaggio molto amato dal popolo di sinistra, l’assessore alla cultura di Roma Renato Nicolini, quello famoso dell'”estate romana”. Ma anche  questo tipo di cambio di pelle nel dominio dei simboli che andavano in direzione del disimpegno e dell’effimero non poteva strappare il consenso dell’algido intellettuale di sinistra Piergiorgio Bellocchio. La nota del suo diario (anno 1994) è esulcerata e al limite dello scatto di nervi.

«Leggo che Renato Nicolini, già assessore alla cultura a Roma, il «profeta dell’effimero», l’inventore di quelle nuove notti romane di cui si sentiva così pressantemente il bisogno, lascia il Pds per aderire a Rifondazione comunista. Non mi stupisco. A dirla tutta, neanche mi stupirebbe se passasse a Berlusconi, magari intruppato con Pannella, Maiolo, Taradash e consimili.

Ed ecco la staffilata feroce

Scambiano:
l’intemperanza per forza
la tracotanza per coraggio
la maramalderia per ardimento
la spudoratezza per spregiudicatezza
la protervia per carattere
lo sproloquio per franchezza
la brutalità per concretezza l’ignoranza per praticità
la sommarietà per sincerità.»

Ho cercato nel testo di Bellocchio se fosse citato lo studio di riferimento su questo cambio di pelle nell’immaginario di sinistra e cioè il libro I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca. La sfida della cultura di massa 1943-1991 (1998) di Stephen Gundle, dove questo processo di transplant culturale è seguito nel corso degli anni:  non si arriva alle figurine e alle videocassette di Veltroni ex abrupto. Purtroppo non è citato. Io continuo a ripeterlo a tutti coloro che si interrogano sul crollo della sinistra storica: guardate che i migliori storici di questo dramma italiano sono storici… inglesi: Perry Anderson, Stephen Gundle, Donald Sassoon, Paul Ginsborg, Robert Lumley and so on…
*
In una nota  Bellocchio scrive:

«Quel rispetto che mia madre aveva per Dio e la Chiesa (al di là di dubbi e obiezioni, che pure non si negava), quel rispetto che io avevo (e ho) per il comunismo (intendo la lotta per l’emancipazione, la giustizia sociale), mia figlia lo ha per il successo.»

Bellocchio è un intellettuale fine e molto elegante nell’esposizione dei pensieri. Mi sono chiesto: ma proprio col comunismo volevi ottenere la giustizia sociale? Come di grazia? E come mettevi in concreto in connessione le due istanze? Il comunismo come mezzo e la giustizia sociale come fine? Mistero. E lo capisco.  Dopotutto Marx si è sempre rifiutato di dare il menu dell’osteria di domani (nel Capitale), cioè di descrivere come avrebbe funzionato il comunismo.  Preoccupato di voler fondare un comunismo scientifico (M.L.Salvadori dirà però «nient’altro che una utopia travestita da scienza») temeva di disegnare i castelli in aria tipici dei socialisti utopisti, e perciò rimase sempre sul generico salvo uscirsene con qualche formuletta ripresa da Saint-Simon che a sua volta l’aveva presa da Gli Atti degli Apostoli: «Da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni».

Come accidenti dovesse funzionare una economia evirata della iniziativa privata e dunque una economia pianificata Marx non ne aveva la più pallida idea. Figurarsi Bellocchio. Lo storico marxista Eric J. Hobsbawm (in fine vita abiurò il marxismo, pochi lo sanno) scrisse a tal proposito in Come cambiare il mondo:

«È piuttosto curioso che la prima teoria di un’economia socialista centralizzata non sia stata elaborata dai socialisti, bensì da un economista italiano non socialista, Enrico Barone, nel 1908. Nessun altro ci aveva pensato, prima che la questione della nazionalizzazione delle industrie private figurasse nei programmi della politica pratica al termine della Prima guerra mondiale. A quel punto, i socialisti dovettero affrontare i loro problemi abbastanza impreparati e privi di una guida dal passato (e di qualunque altra guida, se è per questo). La «pianificazione» è implicita in qualsiasi tipo di economia socialmente gestita, tuttavia Marx non aveva detto nulla di concreto in proposito, e ciò che venne sperimentato nella Russia sovietica dopo la rivoluzione fu perlopiù frutto di improvvisazione […] » .

Ora, che la giustizia sociale si potesse affrontare ed attuare senza neanche uno schema economico comunista (alternativo e più funzionante rispetto ai propri scopi alla economia di mercato) è cosa su cui Bellocchio e tutta la filiera dei marxisti immaginari (locuzione di Raymond Aron e Vittoria Ronchey) non si è mai interrogata. Salvo poi come fece la Rossanda dopo la catastrofe della caduta dell’URSS (e non dopo i crimini di Stalin) dirsi e ripetersi «Il comunismo ha sbagliato ma non è sbagliato» . E ricominciare daccapo, come diceva Arbasino, con la  «svolta del rilancio e il rilancio della svolta». E infatti, Lucio Magri ne Il sarto di Ulm (la storia dei primi tentativi di volo di un sarto che si lanciò dall’alto di un campanile e si spiaccicò a terra, però indicò la via del volo) proponeva altri salti… Il comunismo come continui salti nel buio (della speranza palingenetica e dell’utopia) ma omettendo Magri che non fu con continui lanci da un campanile che l’uomo imparò a volare…
*
Su Giulio Giorello Bellocchio è sferzante. Ma a mio parere giusto. Dopo l’esaltazione  di Contro il metodo di Feyerabend, Giorello (che conobbi a casa sua in zona Città Studi dopo l’esperienza catanese e quando tutti, fine anni ’70 studiavamo filosofia della scienza) era andato un po’ a briglia sciolta, innamorato di una sorta di epistemologia anarchica, e seguendo un trend giovanilista, concessivo e un po’ freak. Bellocchio inesorabilmente lo stanga.
Scrive:

« Giulio Giorello. La prima lettura citata: Tex Willer (sono trent’anni che lo legge, e studia, e ci scrive sopra dei saggi). Tuttavia non sono tanto i gusti dell’epistemologo a disturbare, quanto motivazioni e tono. Si può non amare Manzoni o Pascal, ma mi pare stupido definire «bigotto e a tratti laido» il primo, e «scrittore detestato» il secondo. Si può anche trovare il massimo dell’erotismo in Mary Poppins, ma perché allora fare la corte alla marchesa di Merteuil? E poi la chicca finale: «L’Ethica di Spinoza mi spinse a diventare filosofo», se Baruch lo sapesse, non se lo perdonerebbe!».

Su Sciascia
Lo ritiene sopravvalutato. Famoso perché al traino della questione mafia,  venuto perciò in auge perché la mafia è il filtro attraverso il quale ci vedono all’estero suscitando così di riflesso  curiosità sulla sua opera di aedo ufficiale del fenomeno.
Può darsi, non lo nego, ma perché, Bellocchio, sbaglia a ogni citazione i Beati Paoli in i Santi Paoli?

Su Umberto Eco, disistima tranchant.

«Il nome della rosa di Umberto Eco è, per dirla in breve, una cazzata o boiata; ma non la boiata semplice, breve, lo scherzo leggero; no, è una di quelle imprese o fabbriche con eccellenti fondazioni e buoni materiali, architettonicamente ineccepibili, ben zavorrate, ottimamente articolate, intessute di intelligenza, cultura, dottrina, erudizione, in lungo e in largo e in profondo, e, che diavolo!, arguzia e ironia dispensate a piene mani; così che resta sì una cazzata, ma grande, maestosa, ammirevole, robusta, impeccabile, proterva e sinistra, morbosa, paranoide, demenziale… Una macchina super accessoriata!»

Ma sul semiologo e sul lettore erudito e brillante che era Eco, nessun cenno. Peccato. Io gli avrei suggerito, onde sfumare il giudizio, le pagine di Mario Perniola su Eco in Estetica italiana contemporanea; era ancora in vita quando il libro uscì. (2017)
*
Malmenato Riccardo Chiaberge. Come tutta la lobby  neoliberale del Corriere, Panebianco, Della Loggia, Belardelli. Ma siamo ai “me contro te”. Più avanti dichiarerà disaffezione anche verso i marxisti.
*
Sul marxismo e soprattutto i marxisti manifesta infatti un’opinione riservata e sorprendente. Di cui non avevamo avuto estrinsecazione pubblica.  Una sorta di nicodemismo insospettato ma feroce contro quelli che dovrebbero essere i suoi .

«La mia antica diffidenza, che negli ultimi anni è diventata totale disinteresse, per la produzione teorica del marxismo occidentale deriva dalla convinzione (forse di sempre, anche se a vent’anni non me lo confessavo) che questa sinistra, per dirla con Orwell, non ha mai avuto alcun reale desiderio di un cambiamento rivoluzionario, almeno quella degli ultimi quaranta-cinquant’anni. Ogni speculazione teorica, anche la più intelligente, è inquinata alla radice da questo equivoco, da questa immoralità… Si gioca… Nessuna seria volontà di tradursi in prassi, di farsi movimento reale… E forse anch’io, a mia volta, non sono molto diverso da quei falsi profeti, agitatori e filosofi – mes semblables, mes frères… Li evito, evito di leggerli, e anche di frequentarli personalmente».

Quindi i marxismi sarebbero dei giochi mentali, dei trastulli, ma nessuna domanda sorge sulla irrealizzabilità di quelle dottrine, e quando realizzate non funzionanti… Bellocchio la butta nell’elegia baudelairiana, ma non indaga, non scava. Sembra un elegante scettico blu e non un operatore culturale di punta di quel mondo mentale (che Berardinelli invece  affronterà, facendoci i conti,  in Stili dell’estremismo, 2001, affrontando di petto, fra i tanti  in altri ambiti filosofici, anche i due  protagonisti di quella corrente di pensiero che furono Fortini e Tronti). Eppure, in finale di libro, dopo aver confessato en passant di essere approdato al gradualismo riformista, conferma i propri articoli di fede ideologica seppur con toni di lieve scetticismo à la Montaigne:

Tuttavia: contro la confusione; senza pretesa alcuna di possedere la verità, tanto meno di insegnarla o imporla; confessati la mia inerzia, apatia, stallo… devo dire che i miei atti, le idee, i sentimenti si conformano ancora, naturalmente, a un sostanziale materialismo, ateismo, e se c’è una filosofia o ideologia o mitologia a cui faccio riferimento – pur con tutte le riserve e critiche – è il marxismo (riserve e critiche che poi ho sempre avuto, anche nelle fasi di massimo entusiasmo e impegno politico, quanto all’applicazione della teoria alla prassi, anche se non così forti e profonde).

*
E poi il narcisismo dichiarato.

So di appartenere, ahimè, alla razza dei «narcisi», di coloro per i quali la misura delle cose sono loro stessi, e se va male a loro è il mondo ad andare male… (tra i campioni di questa razza: Montaigne, Rousseau…). Il fatto di saperlo però rappresenta già un primo freno, che in parte limita i danni connessi a questo «vizio».

Sì, Piergiorgio Bellocchio forse era un dandy come Arbasino. Arbasino un dandy giramondo e conservatore, lui un dandy stanziale e atrabiliare. Sembra Sor “er tu mi stufi” di tutto e di tutti…

*
Bellocchio e gli umili
Il brano si articola in tre movimenti. Inizia con un riferimento colto alle letterature europee dove

si grida quasi al miracolo quando entrano in scena e assurgono a protagonisti esponenti delle classi umili.

Quindi alcuni accenni sommari a Manzoni e Verga e poi dopo questa sorta di impaesamento iperletterario ecco che egli introduce  il rapporto tra  sé  giovane bien rangé  (riprendo la formula della De Beavoir) con i sottoposti e i domestici che m’è sembrato pur con tutti i richiami chic letterari del caso (Un cœur simple di Flaubert, le nianje dei romanzi russi, ecc) improntato a una sorta di benevolo, indulgente e compiaciuto  paternalismo borghese. Perché mai, infatti, sottolineare
del Poggioli (uomo di fiducia di casa Bellocchio)

che quell’uomo sarebbe stato capace di affamare se stesso e la sua famiglia per sfamare noi, ci avrebbe difeso contro tutti e anche a costo della vita

se non per asseverare il tratto di cieca subordinazione quando non di dipendenza e sudditanza domestica (a luogo di una sperata emancipazione, che dovrebbe essere la stella polare di un uomo di sinistra)? Più convincente seppur dipinta coi tratti di un conte réaliste (sotto la cute di un ideologo batte il cuore di un letterato) la figura della domestica Annetta, piuttosto brutta, ignorante e malmessa «questa personificazione della rassegnazione …». Anche di lei come del Poggioli sottolinea la devozione cieca, l’annientamento della personalità,  quasi la felicità del servire. Ma è più sincero: in un momento di slancio emotivo avrebbe voluto chiamare la propria figlia come la serva, Anna, ma poi ci ripensò, poteva portare sfiga (Bellocchio dice in italiano polito “malaugurio”): «per mia figlia volevo tutt’altro (bellezza, intelligenza, fortuna…). E non ne feci niente». Un Bellocchio tra Flaubert, Tolstoj e Puškin, sesto fra cotanto senno,  quindi altrettanto borghese e graziosamente compassionevole.

P.s. La locuzione che Gramsci ripeteva spesso «il mondo grande e terribile» per Bellocchio venne ripresa da Dickens. Invece era di Kipling. Kim (1901), tradotto in italiano la prima volta nel 1913: – Chela, questo è un mondo grande e terribile
Già.

 

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