Letteratura
Quando l’Italia conobbe Svetlana Alexievitch
Me la ricordo molto bene Svetlana Alexievitch, era il 2001. In Italia l’aveva portata Maria Nadotti, a cui si deve tanta della ricezione culturale dei talenti stranieri degli ultimi anni.
Proprio con Maria, a Bologna, stavamo facendo un interessantissimo corso di scrittura giornalistica organizzato da una ong locale. Ci parlò entusiasta di questa donna straordinaria che nel dramma di Chernobyl aveva deciso di restare in mezzo alla sua gente e di scriverne, perché, come lei diceva “in ogni racconto io muoio”.
“Preghiera per Chernobyl, Cronache del futuro” è un libro incredibile. Un pugno nello stomaco lanciato nella pancia di ogni lettore, che, attraverso una scrittura asciutta e nello stesso tempo partecipata ha portato ogni persona che lo ha letto dritta lì, in quei luoghi. E ha cambiato la prospettiva del vedere un mondo che troppo spesso in Europa ha significato solidarietà per qualcosa che, sì, era successo, era terribile, ma non si poteva capire bene come avesse impattato sulla vita delle persone. Svetlana aveva avuto invece la capacità di farci comprendere proprio questo, la reazione dell’umanità all’esplosione nucleare.
L’anno successivo, il 2002 venne in Italia e noi corsisti riuscimmo ad incontrarla. Aveva vinto il premio Sandro Onofri (altro scrittore straordinario quanto dimenticato).
Scrissi il pezzo su di lei per il saggio finale del corso, le parlai. Mi colpirono alcune cose: la sua estrema semplicità, la modestia. La normalità di una donna che aveva fatto una scelta rischiosa restando in mezzo al suo popolo nei giorni immediatamente successivi all’esplosione del reattore.
Non dimenticherò mai la sua dignità. Non posso dunque che essere contenta di un Nobel che premia la letteratura che, in quella terra di confine con il giornalismo, dà voce all’umanità. Ne abbiamo, ne sono certa, un infinito bisogno.
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