Letteratura
Quando gli artisti non fanno figli
C’è chi considera il proprio figlio l’unica vera opera d’arte vivente cui sacrificare volentieri la propria vita, e chi sacrificherebbe invece la nascita di un figlio anteponendogli quel figlio tutto speciale (e artificiale) che è la propria arte o professione. Un figlio è «una nostra vena che batte fuori di noi» avvertiva Brancati. E Hegel lo considerava l’unica forma di eternità. Ma gli artisti in genere non sono d’accordo.
Il caso di Marina Abramovic che abortisce tre volte per impedire la nascita di un figlio, avvertita come un ostacolo alla propria carriera d’artista, è su tutti i giornali di questi giorni. Trattandosi di un’artista la notizia ha colpito particolarmente perché la naturale predisposizione alla procreazione di una donna è data per scontata o socialmente attesa. Invece non è così. In verità se una donna decide di non procreare a volte non ha altro mezzo che l’aborto, mentre un maschio non ha di queste preoccupazioni in quanto basta che decida di non averli i figli senza ricorrere a metodi cruenti. Come ha sempre fatto. Oppure, cosa altrettanto nota, li fa e non li riconosce.
Aut liberi aut libri scriveva Nietzsche nel Crepuscolo degli dei. O si fanno libri o si fanno figli. Il dilemma è ancora tutto qui. La storia della letteratura soprattutto dell’800, il secolo devoto e borghese, è piena di écrivains célibataires, di scrittori celibi. Lo furono i nostri Gualdo, Verga e De Roberto, e lo furono in massa i francesi: Stendhal, Balzac, Baudelaire, Flaubert, Maupassant. Probabilmente giocò il suo ruolo in questa ferale scelta, paradossalmente, la condizione “produttiva” borghese, ossia l’attitudine, se non la necessità, di produrre opere per mantenersi in vita, rispetto alla classe aristocratica locupletata di rendite e di famigli in casa che consentivano a Monsieur di grattare il sederino alle Muse in tutta libertà.
Non così lo scrittore borghese anche se provvisto di rendite come il caso di Flaubert, che è quello che conosco meglio.
Quando egli allacciò la sua relazione in quell’amore ipergamico con Louise Colet (lui ventiquattrenne lei trentaseienne) avvertì da subito l’eventualità di mettere al mondo un figlio come una minaccia fisica e metafisica.
Dopo i primi amplessi con la donna amata Flaubert entra in uno stato di ansia senza controllo. Si informa continuamente se sono sbarcati i “rouges”, o “les Anglais”, alludendo, per via delle giubbe rosse dei soldati oltremanica, alle mestruazioni. Le scrive esasperato: «Io un figlio! Oh no, no, no, piuttosto crepare in un una pozzanghera schiacciato da un omnibus. L’ipotesi di trasmettere la vita a qualcuno mi fa ruggire in fondo al cuore con delle collere infernali», «L’idea di dare la vita a qualcuno mi fa orrore. Mi maledirei se fossi padre. Un figlio mio, oh no, no, no! che tutta la mia carne perisca, e che io non trasmetta a nessuno la scocciatura e l’ignominia dell’esistenza». «Io comprendo, come qualsiasi altro, ciò che si può provare nel guardare il proprio figlio che dorme. Non sarei stato un cattivo padre, ma perché mai fare uscire dal nulla ciò che vi dorme? Far venire un essere, è far venire un miserabile».
Ma la sua rinuncia alla prole ha un epilogo sorprendente. Qualche anno prima di morire, nel 1876, scriverà alla nipote Caroline: « Émile [il domestico] è al settimo cielo in attesa di avere un figlio, gioia che comprendo, che ho trovato un tempo molto ridicola e che adesso invidio. Da giovani si è come dei frutti verdi e duri, ci si intenerisce più tardi, e alla fine si giunge a essere maturi e mollicci come certe pere: triste regalo! » E a George Sand aveva scritto due anni prima, il 28 febbraio 1874. « Ciò che mi dite dei vostri piccoli […] mi ha commosso nel profondo del cuore. Perché io non ne ho? Eppure io sono nato per ogni tenerezza! Ma noi non facciamo il nostro destino, lo subiamo. Sono stato vigliacco da giovane, io ho avuto paura della vita. Tutto si paga».
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Postilla
Flaubert, i figli e i libri
Nel dibattito aperto su Facebook con questo post sugli artisti che si rifiutano di procreare perché intenti a creare (le loro opere) ho citato brani della Corrispondenza di Flaubert (il suo vero capolavoro). In alcune lettere indirizzate a Louise Colet, nella prima fase della loro liaison (1846-49) il sommo artista normanno recalcitrava davanti all’idea di diventare padre e si informava ansioso se fossero sbarcati “les rouges” o “les Anglais”, ossia, facendo riferimento alle giubbe rosse dei soldati Oltremanica, se Louise avesse avuto o no le mestruazioni.
In altre lettere della maturità (1874 e 1876) Flaubert diede segni di pentimento per la mancata paternità. A George Sand arrivò a scrivere: « Ciò che mi dite dei vostri piccoli […] mi ha commosso nel profondo del cuore. Perché io non ne ho? Eppure io sono nato per ogni tenerezza! Ma noi non facciamo il nostro destino, lo subiamo. Sono stato vigliacco da giovane, io ho avuto paura della vita. Tutto si paga».
In verità Flaubert era una persona molto sensibile, di una sensibilità femminea potrei aggiungere se la specificazione non venisse percepita come sessista (anche perché alcune donne sono molto più brutali di alcuni uomini in certe circostanze).
Ma al di là della lotta eterna tra i due sessi, occorre dire che la scelta di Flaubert di non procreare fu decisa e netta fin da giovanissimo. Egli si considerava già padre, mettendo al mondo dei… libri.
Ecco cosa scrive a Louise nella seconda fase del loro amore, dopo il viaggio in Egitto. In una lettera scritta nella notte tra il 25- e 26 marzo 1854 ha un moto di grandezza senza fine rispetto al proprio destino di artista (che io, da padre NON artista, ho sempre ammirato).
« Io penso spesso con tenerezza agli esseri sconosciuti, ancora non nati, stranieri, ecc., che si commuovono o si commuoveranno delle mie stesse cose. Un libro vi crea una famiglia eterna nell’umanità. Tutti quelli che vivranno dei vostri pensieri sono come dei figli seduti alla vostra tavola in casa vostra».
Nel 1854 Flaubert aveva 33 anni e stava scrivendo “Madame Bovary”.
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