Letteratura

Quan chai la fuelha: Arnaut Daniel

4 Marzo 2019

Quan chai la fuelha

dels aussors entressims

e·l freg s’erguelha

don seca∙l vais e∙l vims,

dels dous refrims

vei sordezir la bruelha:

mas ieu sui prims

d’Amor, qui que s’en tuelha.

 

Quando cade la foglia

delle più alte cime

e il freddos’inasprisce

per cui si secca il nocciolo e il salice,

dei dolci gorgheggi

vedo impoverirsi il bosco:

ma io sono prossimo

ad Amore, chiunque se ne allontani.

(Traduzione di Eusebi, qui adattata all’ordine originale delle parole)

L’occitanico può sembrare simile al catalano. Ma è un’impressione fuorviante. Così come tutt’altra lingua è il provenzale odierno. Logico che sono lingue imparentate per derivazione comunque dal latino, ma differiscono l’una dall’altra per un’ evoluzione diversa di ciascuna, successiva al XII secolo. Senza contare che esistevano ed esistono differenze locali. Pertanto si consiglia una lettura individuale di ciascun poeta. Arnaut Daniel, Arnaldo Daniello, in italiano, è poeta assai ammirato al suo tempo, ma guardato con diffidenza dopo il romanticismo, perché troppo artificioso, freddo, un calcolatore della lingua, non un poeta. Dante, tuttavia, lo definisce “il miglior fabbro del parlar materno”. E ha ragione. Non a caso, però, lo dice “fabbro”: mette in rilievo perciò la sua abilità architettonica, la sfida di costruire poesia con regole ferree, strette, su pochi, pochissimi elementi. Proprio ciò che dispiaceva ai romantici. E dispiace ai semplificatori di oggi.

Nella “copla”, strofa, sopra citata, le rime si riducono a due, ma distribuite per otto versi, quattro versi per rima. Altre volte tutte le coplas hanno le stesse rime della prima copla. E, infine, è sua l’invenzione della sestina, un componimento di sei strofe di sei versi ciascuna delle quali ciascuna propone in fine di verso un parola rima. Ogni strofa ripete le parole intrecciando l’ultima alla prima, la penultima alla seconda, la terzultima alla terza: ABCDEF, FAEBDC, CFDABE, ECBFAD, DEACFB, BDFECA, la tornada, il congedo di tre versi ripropone l’ordine iniziale ABCDEF, ma con rime al mezzo. Così è costruita la mirabile sestina “Lo ferm voler qu’el cor m’intra”, il fermo volere che nel cuore m’entra. Dante accetta la sfida e anzi rilancia, e compone una sestina doppia, “Io son venuto al punto de la rota”.

Aranut, insomma, è della cerchia dei poeti che si fanno intendere solo da chi fa parte della cerchia: poesia intellettualistica, se mai altra, lambiccatissima, artificiosissima, e – proprio per questo? – sublime. Oggi probabilmente sarebbe sbeffeggiato dai tanti, troppi, fautori della semplicità, della comprensione, dell’immediatezza e dell’intellegibilità dell’arte. Come la mettiamo? Dante lo chiama “miglior fabbro del parlar materno”. Petrarca – Triumphus Cupidinis, IV, 40-42 – “ch’a la sua terra / ancor fa honor col suo dir strano e bello” (“strano e bello”, traduzione in volgare fiorentino del “trobar clus”, poetare chiuso, oggi diremmo ermetico). Leggiamoci per intero una sua poesia.

Ab gai so cuindet e leri

fas motz e capus e doli,

que seran verai e sert

quan n’aurai passat la lima,

qu’Amor marves plan’e daura

mon chantar que delieis mueu

cui Pretz manten e governa

 

 

Tot jorn melhur e esmeri

quar la gensor am e coli

del mon, so∙us dic en apert:

sieu so del pe tro qu’al cima,

e si tot venta∙ill freg’aura

l’amor qu’ins el cor mi plueu

mi ten caut on plus iverna.

 

 

Mil messas n’aug e∙n proferi

e∙n art lum de cer’e d’oli

que Dieu m’en don bon acert

de lieis on no∙m val escrima;

e quan remir sa crin saura

e∙l cors qu’a graile e nueu

mais l’am que qui∙m des Luzerna.

 

 

T’an l’am de cor e la queri

quìab trop voler cug la∙m toli,

s’om ren per trop amar pert,

que∙l sieu cors sobretrasima

lo mieu tot e non s’aisaura:

tan n’a de ver fag reneueu

q’obrador n’ai’e taverna.

 

 

No vuelh de Roma l’emperi

ni qu’om m’en fassa postoli

qu’en lieis non aia revert

per cui m’art lo cors e∙m rima;

e si∙l maltrait no∙m restaura

ab un baizar anz d’annueu,

mi auci e si enferna.

 

 

Ges pel maltrag que∙n soferi

de ben amar no∙m destoli;

si tot me ten en dezert

per lieis fas lo son e∙l rima:

piegz tratz, aman, qu∙om que laura,

qu’anc non amet plus d’un hueu

selh de Moncli Audierna.

 

 

Ieu sui Arnaut qu’amas l’aura

e cas la lebre ab lo bueu

e nadi contra suberna.

 

Con gaio suono graziosetto e lieto

faccio parole e sgrosso e piallo

che saranno vere e certe

quando ci avrò passato la lima;

perché Amore subito appiana e indora

la mia canzone che da lei muove

il cui Pregio sostiene e governa.

 

 

Ogni giorno miglioro e mi affino

perché la più gentile amo e servo

del mondo, ve lo dico apertamente;

suo sono dal piede fino al capo,

e se anche soffia un’aura fredda

l’amore che nel cuore mi piove

mi tiene caldo quanto più s’inverna.

 

 

Mille messe ascolto ed offro

e ardo lume di cera e d’olio

che Dio mi doni buona riuscita

con lei con cui non vale scherma;

e quando guardo il suo crine d’oro

e il corpo che ha agile e nuovo

più l’amo di chi mi desse Lucerna.

 

 

Tanto l’amo di cuore e la bramo,

che per troppo volere penso di togliermela,

se cosa per troppo amare si perde,

perché il suo cuore sovrasta

il mio talmente e non si stacca

tanto n’ha davvero fatto usura

ch’artigiano n’abbia e taverna.

 

 

Non voglio di Roma l’impero,

né che mi si faccia apostolo

se in lei non ho riparo

per cui m’arde il cuore e brucia;

e se il duolo non mi risana

con un bacio prima dell’anno,

mi uccide e s’inferna.

 

 

Per la doglia di cui soffro

di ben amare non mi distolgo,

anche se così mi tiene in abbandono

per lei faccio il suono e la rima:

peggio sto, amando, che chi lavora,

che mai non amò più di un uovo

quegli di Moncli Audierna.

 

 

Io sono Arnaldo che ammucchio l’aria,

e caccio la lepre con il bue,

e nuoto contro corrente.

 

Ho cercato di restare fedele, traducendo, al dettato di Arnaldo. Ma non è facile. E solo la rima finale di ogni copla sono riuscito a salvare. Perduta però nella tornada (il congedo). Il virtuosismo di richiamare in ogni copla le rime della prima non è solo sfoggio di bravura architettonica, ma un modo di richiamare l’attenzione sulla scrittura, è una poesia, questa, che sì parla d’amore, ma insieme parla del modo di parlare d’amore. Dante ne restò perciò impressionato, perché anche lui cercava una poesia che parlasse della poesia. Insomma la scrittura non dimentica mai di essere al contempo riflessione sulla scrittura. Lascio ai competenti filologi romanzi di approfondire questo aspetto. Qui richiamo questo modo di fare poesia perché mi sembra istruttivo di quanti modi esistano nei quali si possa scrivere poesia. Non senza osservare in margine quanto alla luce di una poesia come questa, della quale la musica faceva parte irrinunciabile, quanto, dico, appaia ridicola, provinciale, settaria

la polemica alzatasi in Italia per il Nobel a Bob Dylan.

Ma, ritornando ad Arnaut Daniel, e alle riflessioni che suscita in riferimento alla poesia di oggi, all’arte di oggi, viene da pensare che alla validità della poesia non contribuisce certo la sua comprensibilità, la sua facilità, o per opposizione la sua artificiosa complessità. Nell’un caso come nell’altro il senso della poesia sta nella sua scrittura. Che sia semplice o complicata. Dante può scrivere intricatissime sestine (maestro riconosciuto, come s’è visto, Arnaut) e perfino inventarsi una sestina doppia, ma anche buttare giù un piccola ballata (ballatetta) di immediata efficacia:

Per una ghirlandetta ch’io vidi

mi farà sospirare ogni fiore.

La semplicità non è spontanea, bensì costruita. Questo c’insegna la poesia “difficile” di Arnaut o delle rime petrose o di quelle dottrinali di Dante. Che anche la semplicità non nasce immediata, ma è frutto di pensiero, di costruzione, in una parola di scrittura. Ma questo dovrebbe poi insegnarci anche a non schierarsi, oggi, per un’arte comprensibile a tutti, come l’unica vera arte. Esiste un’arte complicata, artificiosa, difficile, anzi spesso difficilissima, che capiscono pochi, forse pochissimi, ma non per questo meno arte di quella che conquista subito il pubblico. Nel XXVI canto del Purgatorio Dante lo spiega benissimo.

“O frate”, disse, “questi ch’io ti cerno
col dito”, e additò un spirto innanzi,
“fu miglior fabbro del parlar materno.

Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi.

A voce più ch’al ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.

Così fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ ha vinto il ver con più persone.

Or se tu hai sì ampio privilegio,
che licito ti sia l’andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio,

falli per me un dir d’un paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro”.

Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l’acqua il pesce andando al fondo.

Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
e dissi ch’al suo nome il mio disire
apparecchiava grazïoso loco.

El cominciò liberamente a dire:
“Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.

Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’ esper, denan.

Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!”.

Poi s’ascose nel foco che li affina.

Due versi stupendi concludono uno, “come per l’acqua il pesce andando al fondo”, l’incontro con Guinizelli, l’altro, “poi s’ascose nel foco che li affina”, quello con Arnaut Daniel, del quale i versi precedenti sono insieme un’imitazione e una sfida alla poesia dello stesso Arnaut, e nella sua stessa lingua. Quello che può sembrare un discorso evoluzionistico della poesia da Guittone a Guinizelli è in realtà un mettere invece in rilievo la superiorità di una poesia che affronta la complessità del reale alla quale adegua la propria complessità strutturale, sulla poesia che si accontenta di una bravura costruttiva, senza misurarsi, appunto, con la più complessa realtà di una poesia che fa del ripensamento filosofico della realtà stessa la propria ineliminabile e insostituibile sostanza.

Questa forse troppo lunga riflessione, o piuttosto divagazione, mi è nata dalla lettura di un libretto appena ristampato da Carocci editore, nella collana “Biblioteca Medievale”, che raccoglie quanto ci è rimasto della poesia di Arnaut Daniel, e pubblicato per la cura, pazientissima, attenta, di Mario Eusebi. La prima edizione, esaurita, e sparita dalle librerie, era del 1996. E’ una lettura che consiglio caldamente. Non solo perché ci pone a confronto con un grande poeta, alle origini della moderna poesia europea, ma perché c’insegna a diffidare di schemi e pregiudizi che prefigurino il giudizio sull’opera. Si possono avere distinte idee di ciò che è poesia, ma nessuna esaurirà l’immensa ricchezza e varietà della poesia di tanti popoli, di tante lingue, di tante epoche. Non sarà la nostra, piccola, circoscritta, idea di poesia a poter racchiudere il senso della poesia che leggiamo. Ma è da questa lettura che dobbiamo trarre, di volta in volta, l’idea che della poesia ha il poeta che leggiamo. Non è la nostra idea di poesia che deve guidare la lettura, ma la lettura deve guidarci a scoprire l’idea di poesia che celano i versi che leggiamo.

Celano. Non l’ho scritto a caso. Un trattato indiano di estetica del IX secolo, il Dhvanyāloka di Ānandavardhana, dice che essenza della poesia è il dhvani, il suono, l’eco, la risonanza, che non è il significato delle parole, non è manifestato dal significato delle parole, ma appunto dal suono, dall’eco, dalla risonanza che le parole suscitano nell’ascoltatore. Il trattato lo si può leggere tradotto in italiano e curato da Vincenzina Mazzarino per Einaudi, NUE, Torino, 1983. La poesia non è il detto, dunque, per il pensatore indiano (il suo trattatello è un po’ l’equivalente di quello che per la tradizione occidentale è la Poetica di Aristotele), ma il non detto che sta celato sotto il detto, e che si manifesta non in sé, ma nella sua risonanza, appunto nel dhvani. Probabilmente i poeti provenzali avrebbero condiviso una tale idea di poesia. E in ogni caso, anche per loro, la poesia non è mai il detto, ma sempre l’altro, il lontano, il lonh, come lo chiama Jaufré Rudel. Anche l’amore, quasi mai corrisposto, e mai nella poesia di Arnaut Daniel, è sempre un Amor de lonh, un Amor de terra lonhdana.

Qualcuno mi obietterà che quest’idea di poesia artificiosa, intellettualistica, non è democratica. E da quando la poesia ha l’obbligo di essere democratica? Anzi, così posto, il dissidio è mal posto. La poesia non è democratica perché tutti possono capirla. Ma perché ogni poeta aggiunge qualcosa alla conoscenza del mondo. E come per capire, che so, il teorema di Euclide, devo conoscere Euclide, conoscere anzi la matematica, così per capire la poesia devo conoscere il linguaggio con cui mi parla, che non è affatto lo stesso che uso al mercato per acquistare un chilo di pomodori. E’ un linguaggio che ha una storia, punti di riferimento. Devo conoscere sia la storia sia i punti di riferimento. O dovrò dire, per assurdo, che Euclide non è democratico?

Arnaut Daniel, L’aur’amara

A cura di Mario Eusebi. Roma, Carocci editore, “Biblioteca Medievale”, 2019, pagg. 165, € 18,00.

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