Letteratura

Prima di perderti: un colpo da maestro per Tommaso Giagni

27 Ottobre 2016

Se volevi l’impossibile, è proprio perché lei non poteva raggiungerlo. Perché nessuno avrebbe potuto

Un romanzo su un padre e su un figlio. Un romanzo su un amore che poteva essere e non è. Un romanzo di rabbia, di destini e di rinunce, di frasi mai dette, di emozioni sedimentate. Un romanzo che a tratti vorresti respingere, ma non lo lasci e lo percorri, attraverso le frasi. Un romanzo sul quale l’occhio non scivola, ma rallenta e insiste. Un romanzo bruciante, indefinito come la vita. Si tratta di Prima di perderti (Einaudi) di Tommaso Giagni, classe 1985, già apprezzato da molti per il suo precedente lavoro, L’estraneo. La trama si evolve attraverso gli occhi di Fausto, un promettente scrittore che fin da bambino è avvezzo a sentirsi chiamare prodigio. Suo padre Giuseppe, ghostwriter, da sempre alle prese con un fantomatico (inedito) romanzo, si suicida gettandosi dal muretto della terrazza condominiale della sua palazzina. Prima di questo c’è la storia di una famiglia, di due ragazzi, Giuseppe e Benedetta, che dopo la rivoluzione sociale e culturale degli anni Settanta mettono al mondo un figlio, Fausto. Il poi è la fine della loro relazione, è Benedetta che va a rifugiarsi in una comunità dove si dedica alla meditazione, è un vuoto, uno spazio bianco (distanze siderali nonostante i legami di sangue, segreti, giudizi) che esplode con la morte di Giuseppe. Fausto vuole disperdere le ceneri del genitore ma è in quel momento che lui gli si para davanti.

Inizia un viaggio nei pensieri, oltre le suggestioni e i sentimenti raggrinziti per il troppo silenzio, per i giudizi ancora echeggianti. Prende piede a ritroso la storia di un conflitto, irrisolto e forse geneticamente irrisolvibile (“E davvero Fausto si stupisce, di quanto male suo padre l’abbia giudicato nel silenzio degli anni (…). Fausto se lo confessa: ha giudicato suo padre allo stesso modo, lui, e allo stesso modo non è intervenuto. L’ha lasciato percorrere le sue infelicità, rotolarsi negli errori, e a differenza di Giuseppe non aveva neanche il dilemma di interferire o meno nella vita di un figlio. Avrebbe potuto aiutarlo, invece di disprezzarlo da lontano”). La resa dei conti tra padre e figlio non risparmia gli altri membri della famiglia, che fluttuano tra ostilità e forme rinnegate di appartenenza. Giagni non racconta una distanza generazionale: scandaglia l’insofferenza di un figlio brillante e superbo che accusa suo padre di fallimento senza possibilità di appello. Il peso dell’assenza di lui amplifica in Fausto le perplessità e le insicurezze. Di Fausto potrebbe dire molto Catia, l’ex ragazza, una tipa solida seppur avvilita dai suoi lambiccamenti (“Era arrivata all’origine del problema, a capire come in Fausto l’amore non fosse un sentimento, ma una via per condividere il sentimento, questo sì, della paura. Era arrivata a capire come la tragicità stesse nel fatto che la paura – della solitudine, degli errori, della morte – lui non riuscisse ad esprimerla. E per questo, in amore, sarebbe stato un inetto”). Anche lei, come gli altri, gli sfugge. Tutti si sfiorano ma nessuno si attraversa, mantenendo le distanze di sicurezza. Sono le relazioni complicate del romanzo che si districano tra ricordi, flash e proiezioni. Il resto è una scrittura sublime e inquieta, un colpo da maestro che ricorda in qualche modo il decadentismo de L’ultima estate in città di Gianfranco Calligarich. Da leggere.

tommaso-giagni

foto di copertina: © Martin Valentin Fuchs

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