Letteratura

“Poveri a noi” il buon esordio del giovanissimo Elvio Carrieri

6 Giugno 2024

Elvio Carrieri, Poveri a noi, Ventanas 2024, Pp. 214, euro 16.

Libero De Simone è un giovane prof di lettere sotto i trent’anni che insegna nella sezione di un istituto penitenziario barese ove sono  ristretti i sex offender. Qui l’anglopovero  è già di per sé stesso comico, come lo è quasi sempre in un Paese che ha abdicato alla propria lingua, ma lo è di più in un contesto estremo come il carcere. Come se non bastasse, al dato realistico s’aggiunge il registro eroicomico della voce narrante che, soggiogata da quella realtà aumentata che sono le Lettere a cui è sinceramente devota, aggiunge porzioni di autoironia da ‘declassato‘ perché in fondo egli puntava più in alto nella scala del crimine: <<Ero convinto di poter forgiare le menti degli assassini: mi sono trovato a spiegare l’Inferno a un vecchio che si era masturbato sull’AMTAB>>.

Fin dalle prime pagine spira un’aria di freschezza, di ilarità cittadina, di ‘baresitudine’ urbana (ossia contrapposta al contado paesano, scarto che riguarda molte città,  anche la mia, e che risale alla medievale urbanitas Vs rusticitas che Marx avrebbe voluto superare col comunismo nel “Manifesto”, rileggetelo, e che invece è stato eliminato dai Massmedia e Internet), ma anche di acutezza dello sguardo e di scioltezza nel restituire sulla pagina con palpitante tranche de vie ciò che cattura, speziato talora da una colta ridarella giovanile. Almeno in superficie,  perché basta aver fatto solo qualche saison à l’Enfer qual è il nostro Sud, per comprendere che riso e lacrime sono sempre commisti, risguardi della stessa copertina, come accade anche qui nel sottofinale quando cessa la risata e subentra il dramma.

La strategia testuale prevede di assegnare un termine dialettale ai sette segmenti narrativi in cui è articolato il testo. Gustoso il tratto dei trmòn, termine derivato dalla storpiatura di autrement col quale il musicista Niccolò Piccinni  invitava i concittadini a ricorrere al remedium concupiscentiae del sesso che si fa senza donne.

Il rischio è da un lato il bozzettismo dall’altro l’iperletterarietà e l’intellettualismo spinti che gonfiano il reale, più di quanto esso già sia, per riscuoterne gli interessi in termini di floridezza di scrittura. Ma  Carrieri, specie nel secondo segmento, Prfssò, schiva subito la nostra obiezione perché dà mostra di saper manovrare il registro iperculto con sciolta maestria e gustosa ironia. Le pagine degli amplessi con Letizia, la psicologa penitenziaria, sono molto godibili e tra le migliori del libro per quel mix di conflitto tra classismo cittadino di lui e la ‘paesanitudine’ di lei: <<Aggredivo il suo corpo come se stessi per dare l’assedio a una masseria fortificata>>, si legge. Non mancano, nel corto circuito intellettual-sessuale i filosofemi  di Bataille (dépense) o alcuni passi di ‘Mon cœur mis à nu‘ di Baudelaire che entrano nella mente di lui e fatalmente negli amplessi della coppia fornendo un retroterra di alta cultura come necessaria e comica sollecitazione dei turgori della carne. Ma il tutto è  condotto con saputa arguzia e un tantino di irrisione sottotraccia di quell’attraente e pesante fardello che è la letteratura, come qui è detto superbamente: << Non avevo ancora imparato a gestire quella cosa indecente che si fa chiamare letteratura: quando fosse il caso di tirarla fuori e quando riportarla nel cassetto degli ansiolitici>>. Un momento  spassoso.

Francamente come lettori non siamo quasi mai interessati alla gestione o allo sviluppo della trama – che qui è tutta raggomitolata nel ‘roman familial‘ e nelle escursioni nel ventre di Bari della diade Libero e del suo amico ‘Plinio il vecchio’, alias Felice Caporaletti il mitico fuoricorso che tutti abbiamo avuto come amico al Sud – , materia servile benché necessaria d’accordo, ma pagato il minimo tributo alla storia stiamo con l’orecchio attaccato al testo per coglierne l’amperaggio  stilistico, la potenza della frase narrativa che porta l’azione o gnomica (quella che osserva e sentenzia). È ciò che ci cattura in genere: la forza della scrittura. Ci piacciono i romanzi artefatti,  terribilmente scritti. Il nostro Carrieri anche grazie alla materia sessuale e al registro cogitativo lievemente umoristico si instrada, almeno in questo segmento tematico, nel solco di Humbert Humbert di “Lolita” e Barney Panofsky de “La versione di Barney“. Non è un paragone azzardato, solo una indicazione di servizio, diciamo  che Carrieri ci è sembrato quantomeno il loro nipotino barese.

Certo in una narrazione lunga, chiamiamola per convenzione ‘romanzo’, il difficile è tenere la nota. Ci sono i capitoli centrali, quello sul padre guerrillero perso nei fumi rivoluzionari che <<ha barattato  qualche mese di impegno eroico per anni di menefreghismo>> con qualche lampo di declinante tono, che sembrano avere la funzione di interludio. Ma quando rientra in scena Letizia riprende l’abbrivio anche per allungare uno sguardo ricognitivo e vivido sull’odiosamata Bari <<Una città – il cui centro è popolato  da matrone ed evasori –  che è disposta a sacrificare la propria storia per due appartamenti  in più >>,  per approdare infine nel capitolo di chusura che dà il titolo al libro. Quel poveri a noi è un modo locale di dire.

Chi ha frequentato i vecchi testi di Brancati come Gli anni perduti o quelli più recenti di Gaetano Cappelli (autore di riferimento assoluto in tema) è informato sul fatto che esiste un favolismo meridionale in cui una realtà esulcerata si volge con allure di scrittura in ridanciana prosa narrativa spesso puntando su  tipi locali, che sono già strapaesani in re ipsa. Questo materiale umano è come una pietra locale che chiede i suoi provetti scalpellini.

Un’ultima nota.  Questo libro è l’esordio di Elvio Carrieri nato nel 2004, ventenne dunque. Hegel nell’Estetica  osservava che  “Un artista deve aver molto visto, molto udito e molto in sé conservato”. Il passo mi sembra assolutamente calzante per il romanziere. Il romanzo reclamerebbe quindi una vita vissuta alle spalle, essendo esperienza di scrittura après coup, a ricognizione dell’esistenza. Eppure abbiamo avuto esempi di esordi di romanzieri giovanissimi come  Moravia (i primi racconti a 20 anni, “Gli Indifferenti” a 22), e Radiguet (“Le diable au corps” a 18 anni!) che, a dispetto dell’età hanno mostrato  una presa forte sul reale, quasi con spirito da veggenti. Qui ovviamente non siamo su questi livelli, ma buona la prima.

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