Letteratura
Poeti e poèsie nella Milano fine anni ‘70
Ricordo di un collega di lavoro di tanti anni fa. Democristiano del Cilento, traffichino come pochi – poi ditemi come potevamo essere democristiani anche noi allora-, 40 anni di “Madunina” sul groppone ma come se fosse partito ieri da Contursi Terme (ci teneva alla specifica termale) sia come voltaggio mentale (detestava l’industrialismo milanese e la sua ideologia del laurà) sia come parlata integralmente vernacolare: cadenza, giri di frase, lessico, tutto. Pronto al ritorno a casa e a riprendere come niente la partita a tressette esattamente in quel punto in cui l’aveva lasciata quarant’anni prima. Un simpatico!
Io adoravo l’italiano anabolizzato, artificiale, idealtipico e inesistente, ma per me irresistibile, dei doppiatori. Ed ero circondato da padani che slittavano sulle loro esse liquide e dai miei sicilianuzzi ancora più ostinati, che calcavano l’accento nativo con una punta di sprezzante orgoglio, ritenendo già una perdita d’identità l’italiano scevro da inflessioni dialettali, e temendo forse una diminutio della virilità – non erano mica Lisa Gastoni loro-, parlavano con la pronuncia retroflessa nel gruppo “tr” del tipico giudice penale siculo: “Condanniamo Trrifilò Pietrrro ad anni quattrrrro e mesi trrrre di rrreclusione”…
Il collega era un poeta. Lui diceva che scriveva non poesie, ma poèsie. Non chiedetemi cosa volesse dire, non lo ricordo: teorie poetiche strampalate. Venivamo da epoche di neoavanguardie ardite in cui solo lo spostamento di un accento sulle sillabe delle parole garantiva molte franchigie redazionali (mentre nella prosa trionfava il vezzo di spezzarle filosoficamente allo scopo di far risaltare il senso ascoso delle etimologie). Avevo un modesto interesse per la poesia in quegli anni che leggevo solo per completezza di formazione; e più per capire quella forma di espressione che per diletto avevo comprato la bella antologia dei “Poeti italiani del Novecento” nei Meridiani a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, il primo Meridiano della mia modesta collezione che pilucco tuttora con la soddisfazione del lettore volenteroso, ammesso alle raffinatezze del verso.
Quell’anno, credo il ’79, ero stato trascinato da un’amica fino a Como ad assistere a una performance di poesia sonora di Adriano Spatola (il primo a sinistra nella foto), poeta della nostra Neoavanguardia, introdotto da Edoardo Sanguineti. Spatola iniziò la sua performance denudandosi il busto pingue e peloso. Prese il microfono “a gelato” e lo appoggiò sulla panza tamburellandogli sopra dalla parte della palla forata e cominciò una cantilena, in accelerazione, di due sole parole in francese: Aviation-Aviaterur, come di un aereo che si pone a rullare sulla pista prima del decollo, prima piano e poi sempre più forte, sempre più forte e veloce: Aviation-Aviateur- Aviation-Aviateur -Aviatioon-Aviateeur- Aviatiooon-Aviateeeur- Aviaaaatioooon-Aviaaaateeeeeeur, vroom…! Sanguineti ridacchiacchiava sia a mezza bocca sia con gli occhietti neri e mobili dietro il nasone a ciabatta circonfuso dal fumo violetto, misterico, di una sigaretta, evidentemente complice e soddisfatto della incursione corsara di Spatola nei territori del lirismo italiano colpevolmente ritenuto ancora debitore dei sospiri petrarcheschi e degli Infiniti leopardiani…
Il collega scrittore di poèsie venne a sapere, non so come – serbavo i miei segreti come un agente del Mossad -, che mi piaceva leggere. Errore fatale, ma involontario; in quell’ambiente non era bene destare sospetti esibendo giri di frase complicati, accoppiamenti giudiziosi di aggettivi e sostantivi, citazioni colte, e io me ne guardavo bene, e per nascondermi meglio cedevo spesso sui congiuntivi come un Mike Bongiorno degli impiegati d’ordine, per rassicurarli, per adeguarmi al voltaggio espressivo di tutti. Massa nella massa o piuttosto “principe tra la folla” come Thomas Mann intendeva l’artista. Tale mi credevo nella mia improntitudine di giovane ammaliato dalle lettere e con pochissime lire in tasca, e più fame avevo e più cacciavo la testa nei libri con elegiaca afflizione ma anche per non soccombere all’orrendo livellamento impiegatizio, per capire qualcosa di più della vita.
Ma era successo che un giorno la moglie del capo mi vide in Cordusio in attesa del metrò con un libro in mano e da allora passai tragicamente come un intellettuale, una delle figure più odiate nell’Italia concreta, praticona e “moderata” di sempre. L’Italia è il Paese dove i secchioni vengono sfottuti a sangue e talora spinti al suicidio e dove si riserva ai lettori il sospetto e l’esecrazione del Cesare shakespeariano verso Cassio.
Intorno a me voglio solo vedere
gente ben paffuta e ben lisciata,
e che dorma la notte. Troppo magro
e segaligno è Cassio e legge troppo:
tipi così sono pericolosi.
(W.Shakespeare, “Giulio Cesare”, Atto I, Sc. II)
Ed ecco che ero stato scoperto: non più principe in incognito, perdevo la mia celata regalità. Risate, sgomitate, ironie del tipo: “Chi ti credi di essere? Voli alto eh? No, qui, in mezzo a noi devi restare, coi piedi per terra”. Colpa mia: primo perché m’ero fatto cogliere con il libro in mano; secondo perché sulla copertina non c’era scritto a caratteri cubitali “KEN FOLLET” ma il titolo, leggibile a distanza accidenti!, “La struttura assente” di Umberto Eco, allora un perfetto sconosciuto non avendo scritto ancora “Il nome della rosa” e rotto il muro del suono delle 100.000 copie vendute. Quella curiosona lesse il titolo –elegante, astratto, semiotico, incomprensibile comme il faut – e mi gettò subito il malocchio addosso. Sulla schiena mi fu impressa la “i” la lettera scarlatta di “intellettuale”, classificazione che si propagò con la velocità della luce nel nostro ambiente di impiegatacci spesso attaccati al telefono.
Ah il collega poeta! Qualcosa sulla mia perversa inclinazione alla lettura era evidentemente venuto a saperla. Un giorno mi si parò davanti con una plaquette di poesie, anzi poèsie, dicendomi: “Leggi qui, roba buona”, neanche si trattasse della soppressata della nonna. Diedi una scorsa alle poèsie: lui furbescamente mi aveva dato la dritta interpretativa qualche istante prima facendo cadere distrattamente il nome di Salvatore Di Giacomo. A me parvero delle povere cose anche se chiamate poèsie: c’erano cardilli, aneme e core, tramonti alla marina, e tanti accenti spostati… Per tirarmi d’impaccio e tentare un’onesta divagazione dopo aver proferito solennemente il nome di Di Giacomo (vidi un enzima di soddisfazione balenargli negli occhi) gli chiesi quali poeti leggesse. Di scatto, mi strappò il libro di mano e sbottò: “Ma sei matto! Un poeta non legge niente e nessuno, altrimenti perderebbe l’isc-pirazziuone e si farebbe influenzare e sc-criverebbe come l’ultimo poeta che ha letto. Perderebbe l’originalità! … Ma che ti viene in mente? Stai a pazzia’? Un- poeta- non –legge- maaaai!”. Scandì ieratico e con gli occhi spiritati.
E s’allontanò scuotendo la testa e toccandosi il cornetto rosso che sapevo teneva in tasca.
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