Letteratura
Pino Levi – Antifascista, resistente, ebreo
Secondo la maggiore storica della deportazione ebraica italiana, Liliana Picciotto, esistono tre Levi, ebrei antifascisti, che hanno testimoniato nella letteratura italiana le esperienze cruciali del fascismo e antifascismo, della Shoah e della lotta partigiana. Carlo, Primo e Pino. Giuseppe (Pino) Levi Cavaglione (Genova 1911—1971), il meno noto dei tre, pubblicò nel 1954 il diario della sua esperienza partigiana. Libro esemplare, che merita senz’altro di essere maggiormente letto e conosciuto; come ricorda la postfazione, suscitò alla sua prima uscita l’elogio di Cesare Pavese, che indicava nella scelta della narrazione diaristica «l’unica forma in cui, a così poca distanza dai fatti, è possibile rievocare senza errori di prospettiva o sbavature la tremenda esperienza della guerriglia».
Guerriglia nei castelli romani è stato di nuovo ristampato per il melangolo.
La sua biografia si può leggere nella pagina a lui dedicata nel sito del CDEC, all’interno di una importante rassegna dal titolo Resistenti ebrei d’Italia.
Nella Introduzione l’autore descrive cosa motivò la sua scelta partigiana: «Se gli italiani non avessero provato un brivido di sdegno alle notizie delle uccisioni di massa e della deportazione degli ebrei, e di slavi e di altre popolazioni soggiogate; se negli ebrei, negli antifascisti, nei renitenti alla leva fascista non fosse insorto il terrore di finire nei campi di concentramento, di venir torturati o bestialmente uccisi, non vi sarebbe stata quella esplosione spontanea e improvvisa di energie umane e di elementi oscuri e selvaggi che, unitamente all’istinto di conservazione e di difesa, spinse molti ad andare alla macchia per combattere”. […] Io ho lottato perché sentivo di non aver più riparo nel passato, né garanzia, né impegni: perché volevo vendicare mia madre e mio padre e le innumerevoli vittime dei tedeschi e dei fascisti».
Mentre era impegnato a combattere i genitori furono arrestati a Genova l’11 novembre 1943, e deportati verso Auschwitz senza fare ritorno. Quel giorno stesso ai Castelli iniziarono i preparativi per un grande attentato partigiano contro un convoglio militare tedesco, che avverrà nel dicembre, procurando la morte di centinaia di soldati tedeschi, e che sarà raccontato anche dal film “Un giorno da leoni”, di Nanni Loy, del 1961.
Nel libro è possibile seguire giorno per giorno le azioni di guerriglia contro i reparti tedeschi, descritte con immediatezza e intensità, e talvolta in scene crude e violente che riportano il ritmo frenetico della battaglia:
«Raggiungemmo la via Appia e dopo aver sparsi alcuni chiodi ci spostammo nella cunetta stradale. Non ci fu da attendere molto. Dopo pochi minuti, vedemmo un’automobile che scendeva veloce verso Roma. Tolsi l’assicuro al mio splendido mitra tedesco e a una decina di metri di distanza aprii il fuoco. Una raffica di mitra infranse il parabrise. L’automobile sbandò violentemente passando così vicino ai miei compagni che questi credendo di venire investiti si trassero da parte non poterono sparare, si raddrizzò e proseguì la corsa ondeggiando come un ubriaco. Balzai sulla strada e le sparai dietro tutti i colpi del caricatore. L’auto sembrava una bestia ferita che cercasse disperatamente di sfuggire dal cacciatore ma dopo un centinaio di metri andò a finire nella cunetta stradale lì rimase ferma, mezzo rovesciata nel campo. Un’ombra sceso dalla macchina e si mise a correre. Febbrilmente inserii un nuovo caricatore al mitra e ricominciai a sparare. Il caricatore alternava ad ogni pallottola perforante una tracciante in modo che un filo rosso partiva dalla canna del mitra e lacerando l’oscurità segnava il tragitto del proiettile fu una questione di pochi secondi ma mi sembrò lunghissima. La sagoma nera correva nella campagna stagliandosi contro il cielo stellato. Doveva essere in preda ad un terrore folle. Io tendevo tutti i muscoli e i nervi per mettere i colpi a segno. Il filo rosso si congiunse finalmente all’ombra nera e ne fermò la corsa. L’ombra rimase immobile un istante. Il filo rosso si perdeva nel nero del suo corpo legandolo al mio mitra che riempiva la notte col suo fragore ritmico e potente. Poi cadde di schianto. Il filo rosso si dissolveva ora nell’immensa solitudine della campagna poi più niente. Avevo terminato il caricatore.»
Nella quarta di copertina del volume, due citazioni: una dell’autore «La mia speranza e il mio impegno sono oggi rivolti a far sì che l’odio dell’uomo verso l’uomo scompaia per sempre», l’altra di Raffaele Mastrolonardo, che nella sua postfazione così sintetizza il senso del libro del nonno: «Considerava, Pino, la resistenza italiana “una delle più belle e nobili pagine della storia dei paesi oppressi dal nazismo” Ma per quanto riguarda il suo personale contributo a questa pagina, che pure fu notevole, si tenne sempre lontano dalla retorica, fedele alla posizione identificata da Cesare Pavese nella sua recensione al libro: “non predica, non fa lezione di storia o di eroismo, né a sé né agli altri».
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