Letteratura

Peter Handke è davvero il Bob Dylan dei negazionisti del genocidio?

16 Ottobre 2019

Il Comitato del Nobel decide di uscire dagli scandali recenti assegnando il premio per la letteratura 2019 a Peter Handke, da molti accusato di essere un difensore di Milošević e un negazionista del massacro di Srebrenica.

Allo scrittore austriaco non viene perdonato l’infausto elogio pronunciato al funerale del presidente serbo accusato di crimini contro l’umanità per la barbara pulizia etnica perpetrata in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo. «Amo non tanto la Serbia, ma la Jugoslavia – e volevo accompagnare la caduta del mio paese preferito in Europa, e questo è uno dei motivi per essere al funerale», spiegò Handke al New York Times nel 2016 dopi i funerali. Tuttavia, la sua parve un’adesione acritica e complice alla propaganda nazionalistica serba più che ai valori della Jugoslavia.

In interviste più recenti (Manifesto 2010), Handke ha cercato di difendersi ricordando la condanna per diffamazione nei confronti del Nouvel Observateur che aveva attribuito allo scrittore la dichiarazione di essere «felice solo vicino a Milošević», e accusando la stampa di aver fatto una caricatura delle sue parole su Srebrenica, «ho condannato i crimini commessi dai serbi, ho ricordato però che tutto è incomprensibile se non si ricordano le stragi, perpetrate prima dalle milizie bosniaco musulmane. […] Era una feroce guerra interetnica e interreligiosa da denunciare tutta quanta».

Ciò che rende questo premio molto problematico, tuttavia, è che non si tratta solo delle opinioni estemporanee di uno scrittore disallineato e anticonformista, perché un certo cinismo politico compare anche in alcuni scritti. Significativo, a questo proposito, l’aneddoto raccontato dal romanziere e sceneggiatore sloveno Miha Mazzini subito dopo l’annuncio del Nobel: «La Jugoslavia stava crollando e non c’era nulla sugli scaffali dei negozi, avevo passato l’intera giornata in coda per l’olio combustibile e la sera, quasi congelato, ho iniziato a leggere il saggio di Handke sulla Jugoslavia. Scriveva di come mi invidiasse: mentre austriaci e tedeschi, gli occidentali, si erano innamorati del consumismo, noi jugoslavi dovevamo fare la fila e combattere per tutto. Oh, quanto eravamo vicini alla natura! Quanto eravamo meno materialisti e più spirituali! Anche allora, lo trovai meschino e totalmente egocentrico nella sua ingenuità.»

Il dilemma, dunque, non riguarda solo se un bravo – o eccelso – scrittore debba essere penalizzato per le opinioni al di fuori della letteratura, perché, in questo caso, le opinioni si riflettono anche nella sua opera. Con qualche forzatura, potremmo allora considerare la polemica intorno al Nobel ad Handke come un esempio pratico del molto dibattuto conflitto tra moralità ed estetica nelle valutazioni dell’arte? Semplificando e azzardando uno scarto laterale non da poco, ipotizziamo di sì. E per ulteriore semplificazione diciamo che alla domanda se il contenuto etico di un’opera debba influenzare la nostra valutazione estetica, si possa rispondere con tre approcci principali; quello dell’Autonomia dell’arte che alla domanda risponde «Mai!»; del Moralismo, che ribatte «Sempre! »; e del Moralismo moderato, che obietta, «A volte…»

In questo caso, gli “autonomisti” appaiono essere i tipi dell’Accademia svedese, la quale motiva così il premio ad Handke: «per un’opera influente che con ingegnosità linguistica ha esplorato i margini e l’autenticità dell’esperienza umana […] La scrittura di Handke mostra una mai doma ricerca per il significato dell’esistere». Una ricerca che è anche della lingua, come ben visibile in Kaspar, opera teatrale del 1967 basata sulla leggenda di Kaspar Hauser, il ragazzo che compare all’improvviso in una piazza di Norimberga sapendo dire solo il proprio nome e poco altro. Qui, i personaggi tentano di parlare senza tuttavia trovare le parole, come se dopo l’Olocausto il mondo dovesse essere ricostruito da zero, anche nel linguaggio. L’Accademia ha anche citato il romanzo Infelicità senza desideri (1972), in cui l’autore scrive del suicidio della madre, definendolo «un libro breve e duro, ma profondamente affettuoso». Da allora, i romanzi di Handke hanno continuato quello straordinario lavoro di iper-analisi dell’esistere scrivendo su ogni tipo di argomento: la relazione profonda tra il Sé e il paesaggio (Saggio sulla giornata riuscita, 2005); la motivazione alla base della ricerca dei funghi (Saggio sul cercatore di funghi, 2015); la meditazione e la toilette (Saggio sul luogo tranquillo, 2014)

L’Accademia riconosce la querelle, ma immediatamente ne prende le distanze: «Sebbene a volte abbia causato controversie, non può essere considerato uno scrittore impegnato nel senso di Sartre, e non ci dà alcun programma politico». L’idea che l’Accademia sia apolitica risulta comunque essere una novità: Dario Fo vinse il Nobel nel 1997 perché «seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi» e da tempo si crede che Philip Roth sia stato vittima della discutibilissima confusione fra l’autore e il suo alter ego letterario, Nathan Zucherman (lui sì, non certo personaggio esemplare di politically correctness in tema di genere).

Le voci di dissenso per il Nobel ad Handke sono quelle dei “moralisti”:  PEN America ha espresso »profondo rammarico» per la decisione: «Siamo sbalorditi dalla selezione di uno scrittore che ha usato la sua voce pubblica per minare la verità storica e offrire soccorso pubblico agli autori di un genocidio». Mentre l’Accademia delle scienze e delle arti del Kosovo ha inviato una comunicazione all’Academia svedese: «Non abbiamo mai pensato che saremmo stati testimoni così presto dell’amnesia e dell’amnistia morale». Salman Rushdie ricorda di aver scritto «sulle idiozie di Handke già 20 anni fa» (nel 1999, in un’intervista al Guardian, lo nominò il secondo classificato come «deficiente internazionale dell’anno» per la sua «serie di appassionate scuse per il regime genocida di Slobodan Milošević).

La polarizzazione delle opinioni su Handke non è certo una novità. La sua visione è stata a lungo derisa da ex amici e colleghi. Nel 2008, il romanziere Jonathan Littell ha osservato che, Potrebbe essere un artista fantastico, ma come essere umano è il mio nemico … è uno stronzo», e il parere di Susan Sontag non era molto differente. Paradossale, è anche il fatto che nel 2014 Handke stesso sentenziò che, «Il premio Nobel dovrebbe essere finalmente abolito», mentre adesso, a premio assegnato, afferma: «È stato molto coraggioso da parte dall’Accademia svedese», aggiungendo che, «Queste sono brave persone» (Slavoj Žižek ha commentato al Guardian che la scelta premiare Handke dimostrerebbe che Handke stesso aveva ragione quando definiva il Nobel una «falsa canonizzazione della letteratura»).

Fra le voci dei “moralisti moderati”, c’è invece quella del Premio Strega Helena Janeczek che su Facebook sottolinea di considerare il neo Premio Nobel «uno degli scrittori più importanti della letteratura mondiale del secondo novecento». Pur aggiungendo che dal quadro complessivo non vada esclusa l’immagine di Handke al funerale di Milošević da lui apprezzato come “difensore del popolo” serbo. Janeczek immette altri elementi al dibattito a riguardo del come Handke non fosse mai stato uno scrittore “impegnato” ma anzi rivendicasse programmaticamente di essere “un abitante della torre d’avorio”, «finché evidentemente ha reagito in maniera estrema alla rappresentazione dei conflitto nei media tedeschi, dove, semplificando, gli unici “cattivi” apparivano essere i serbi». «Insomma una polemica – quasi un po’ “pasoliniana” contro la semplificazione e il consumismo regnante in occidente». è il parere di Helena Janeczek.

Da essere scrittore che sostiene, anche paradossalmente e provocatoriamente, la propria posizione nella “torre d’avorio”, passare ad essere scrittore impegnato contro certa propaganda mediatica su una guerra sporca evidentemente è un passo difficile in cui si possono rischiare plateali cadute. Se davvero il scopo di Handke fosse quello riequilibrare le narrazioni sbagliate, ha fatto l’errore opposto. E se lo scopo era di denunciare una guerra con tanti colpevoli, il rendere omaggio a uno dei principali fra questi è stata una scelta incomprensibile.

Forse le altrimenti indecifrabili scelte politiche di Handke potrebbero essere approssimativamente spiegate, se non perdonate, come espressione del bisogno di essere controcorrente e provocatorio, quell’impulso artistico a stuzzicare e pungolare spiazzando il lettore con rebus ed enigmi come già avveniva nel romanzo di esordio I calabroni e nel debutto a teatro Insulti al pubblico – sempre del 1966 – che fece scalpore per la sfida lanciata al maltrattato pubblico.

Ciò non toglie che – prendendo a prestito le parole del romanziere britannico Hari Kunzru – «più che mai abbiamo bisogno di intellettuali pubblici in grado di operare per la difesa dei diritti umani in opposizione all’indifferenza e al cinismo dei nostri leader politici. Handke non è quella persona». All’Accademia svedese non sembrano essere stati dello stesso parere.

 

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