Letteratura
Peste e letteratura: per una nuova cultura della morte
È questo il modo in cui finisce il mondo. Non con uno schianto ma con un lamento.
(T. S. Eliot, The Hollow Men)
Uno spettro si aggira per l’Italia — lo spettro di un’infezione psichica ancor prima che virale. La Storia ce lo insegna: le truppe sono allo sbando quando il loro capo viene sconfitto, la massa riunita in piazza si sgretola in maniera scomposta quando viene annunciata la presenza di un pericolo imminente. Il corpo collettivo si smembra. Il panico, come ha sottolineato Recalcati, erode la solidità euforica della massa riportandoci alla nostra individuale inermità.
Apparteniamo al pezzo di umanità più agiata e longeva che sia mai transitata sulla faccia della Terra, eppure sembriamo la più impaurita ed isterica. Nati e cresciuti nel più lungo periodo di pace e prosperità che la Storia ricordi, abbiamo a disposizione un enorme patrimonio di conoscenze ma siamo poi pronti a credere ciecamente nel chiacchiericcio dei “virologi della domenica”.
Il nesso logico è abbagliante: la prosperità genera paure. Come notava anche Alexis de Tocqueville, la Rivoluzione francese non era scoppiata in una società prostrata dalla miseria, ma al termine di un periodo di relativo benessere. C’è stata una paura antica, figlia dell’impotenza di fronte all’offensiva di una natura indomabile, e c’è una paura moderna che nasce in una società dedita al controllo, all’impegno scientifico e razionale per debellare il male. La paura dell’onnipotenza che si scopre impotente, all’interno di una società dalle aspettative crescenti in cui anche la rabbia cresce se queste aspettative vengono deluse.
L’isterismo collettivo scoppiato alla notizia dell’ingresso di Covid-19 in Italia ci dice che un pezzo di modernità è andato in frantumi. Come nella Medea di Pasolini ambientata nel Camposanto di Pisa, simbolo di una polis moderna, dominata dal pensiero razionale, che ha inutilmente allontanato il pensiero barbarico di cui Medea è rappresentante, oggi (ri)scopriamo in noi un elemento primitivo che la prospettiva delle magnifiche sorti e progressive non ha adeguatamente assorbito.
Ma questo isterismo collettivo ci dice anche che non siamo più capaci di un equilibrato rapporto con la morte: il nostro destino di morituri non trova più codici culturali capaci di elaborarlo e affrontarlo. A tal proposito, però, può ancora aiutarci la letteratura.
Lucrezio e il De rerum natura: la peste come assenza di ragione
Già Lucrezio, prendendo come modello le pagine de La guerra del Peloponneso di Tucidide, chiude il suo De rerum natura con la descrizione della peste che colpì Atene tra il 430 e il 429 a.C. Con il suo poema, il poeta campano si era proposto di curare quelle che riteneva le due più grandi ferite dell’umanità: il malsano attaccamento alla vita (cupido vitae) e la paura della morte (timor mortis). A tal fine, Lucrezio accoglie le idee partorite in Grecia due secoli prima da Epicuro che per primo aveva varcato “le fiammeggianti mura del mondo”, vincendo con le parole l’irrazionalità umana. Le paure, e in particolare la paura degli dei (religio) che è la più rovinosa di tutte, provengono dal buio dell’ignoranza. Ma al dispiegarsi della ragione epicurea la religione è calpestata, le barriere del mondo si dissolvono. L’uomo può finalmente accedere a quella serena imperturbabilità (atarassia) che deriva da uno sguardo lucido sulla realtà, capace di restituirci il vero volto delle cose.
Ora capiamo perché Lucrezio chiude il suo poema con questo terribile affresco mortifero. Il poeta interpreta la peste come una metafora della società: se gli uomini non seguiranno i precetti della dottrina epicurea, allora l’umanità si disgregherà in preda a stupide superstizioni. Ed ecco che la peste diventa simbolo dell’assenza di ragione. Ma non basta. In un poema aperto dall’elogio di Venere che viene paragonata alla primavera, momento di rinascita per eccellenza, chiudere con la descrizione della peste significa alludere ad un equilibrio insito nella Natura, al fatto che la morte è parte integrante della vita.
Boccaccio e il Decameron: la peste come disgregazione della società civile
L’opera letteraria più direttamente collegata nell’immaginario collettivo al tema del rapporto con la morte è sicuramente il Decameron, ambientato proprio nel 1348, l’anno della grande Peste. Nell’introduzione alla prima giornata Boccaccio conduce la celeberrima descrizione dell’epidemia che sta affliggendo Firenze: la pestilenza diventa quella situazione di disgregazione della società in cui il consorzio civile, e tutte le leggi che lo regolano, si svuotano di valore. Le strade si riempiono di cadaveri e la società umana collassa nell’anarchia: il vicino inizia ad odiare il vicino, il fratello inizia ad odiare il fratello, persino i figli abbandonano i genitori.
Ma il minimo comune denominatore di questa anarchia che assume varie forme è l’impossibilità di segnare il confine fra vita e morte. Lo scopo del lutto, infatti, è sempre stato quello di ristabilire, dopo il momento di crisi in cui il lutto stesso consiste, il confine fra vita e morte. Durante la pestilenza, tuttavia, la vita sembra essere riassorbita dalla morte che dilaga ovunque, determinando il collasso di tutte le strutture e di tutte le leggi umane che iniziano ad essere violate impunemente.
Fra queste regole che vengono meno, infatti, Boccaccio insiste sul fatto che i riti funebri non vengano più celebrati per l’elevatissimo numero di morti. In presenza della peste la morte dell’individuo non ha più quel valore di esperienza sociale e comunitaria sottolineato da Giambattista Vico: ce ne stiamo accorgendo in questi giorni, in cui i decessi per Covid-19 sono soltanto numeri da aggiornare ossessivamente ed esorcizzare.
Nello scenario boccaccesco, la campagna fiorentina in cui si rifugiano i dieci narratori ha tutte le caratteristiche di un luogo ideale (locus amoenus) nel quale ricostruire quell’ordine della vita e della convivenza civile spazzati via dalla peste. C’è bisogno di segnare una netta separazione tra la vita e la morte e di ricostruire un mondo, quello dei vivi, basato sulla regolamentazione del comportamento umano attraverso la narrazione e l’ascolto.
Durante i dieci giorni di quarantena, i giovani componenti della brigata si raccontano delle novelle proprio perché la narrazione si eleva, come ricordato da Walter Benjamin, a momento condiviso attraverso il quale si (ri)costruiscono e tramandano i valori centrali di ogni comunità, nel caso del Decameron annientati dalla pestilenza.
Decameron, del resto, altro non significa che ricostruzione del mondo in dieci giorni a partire dall’apocalittico scenario della peste. In questo senso l’opera di Boccaccio è una palingenesi laica del mondo attraverso la narrazione. E ci dice ancora oggi che nel massimo momento di irrazionalità la letteratura si può elevare a mezzo di salvezza.
Manzoni e la Storia della colonna infame: la peste come strumento di controllo
Il nostro viaggio letterario termina con Alessandro Manzoni e la sua Storia della colonna infame (1840). Il saggio narra di un processo intentato a Milano, durante la terribile epidemia di peste del 1630, contro due presunti untori, Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, che si conclude con la condanna a morte dei due imputati.
Le sofferenze dei due uomini non finiscono con la condanna: poco dopo la loro morte, infatti, la casa del Mora viene demolita per far spazio alla Colonna infame, un monumento eretto per ricordare la punizione esemplare loro impartita, un monito imperituro per chiunque avesse avuto in futuro la tentazione di contagiare altre persone.
Dalle pagine del Manzoni capiamo due dinamiche strettamente collegate tra loro. La condanna contro i presunti untori, i quali confessarono solo dopo aver subito ripetute torture fisiche, fu possibile soprattutto grazie all’ignoranza popolare riguardo le cause di trasmissione della peste.
Allo stesso tempo il Senato, la massima autorità politica della Milano seicentesca, fu connivente con la negligenza giudiziaria. Un caso del genere, agli occhi delle istituzioni, serviva a neutralizzare le rivolte popolari che stavano montando in quei mesi del 1630 a causa della situazione di precarietà entro cui versava la città. L’obiettivo era quello di individuare dei capri espiatori in grado di dare risposte a domande che, almeno nel breve periodo, non ne avevano. A tal fine le autorità decisero di accusare dei comuni cittadini e, come monito collettivo, di condannarli.
Alla luce di queste considerazioni capiamo che il protagonista indiscusso della Storia della colonna infame è senz’altro il terrore, un potente mezzo che permette alle istituzioni di tutti i tempi di incrementare senza controllo le dicerie popolari e insieme di godere della legittimazione dell’opinione pubblica. Manzoni intuisce il pericolo insito nell’alimentare la credulità popolare, che è quello di veder crescere esponenzialmente gli atteggiamenti irrazionali.
Le lunghe file nei supermercati e nelle farmacie, i linciaggi contro i cittadini di origine asiatica e, prima che il Covid-19 arrivasse in Italia, l’appello disperato alla chiusura delle frontiere, sono le diverse facce di una stessa irrazionalità che emerge al diffondersi di ogni pestilenza e che secoli di letteratura hanno indagato alla ricerca di un codice che la esorcizzasse.
Questo isterismo collettivo ci dice che dovremmo ricostruire una coscienza collettiva della finitudine umana, una cultura della morte. La letteratura può aiutarci a farlo.
Alessandro Laloni
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