Letteratura

Anche i poeti odiano la poesia

10 Maggio 2017

Adam Gordon, protagonista di Un uomo di passaggio di Ben Lerner, è un poeta americano a Madrid che tenta invano di studiare e scrivere un poema di impegno civile sulla Spagna franchista. Si ritrova, quasi per caso, a un reading in una galleria d’arte in cui vengono lette delle sue poesie tradotte in spagnolo da una sua amica. Se vi siete mai trovati in una situazione del genere avrete notato che in ogni reading che si rispetti alla fine ci si ritrova a parlare dei testi dei poeti, qualcuno azzarda dotte interpretazioni, altri si limitano ai complimenti, i più furbi approfittano degli alcolici.

La stessa cosa accade a Gordon: fuori la galleria si ritrova, quasi per caso, fra un gruppo di ragazzi che discutono delle sue poesie; uno di loro sostiene che la poesia deve piuttosto cercare nuove forme capaci di prefigurare possibilità del linguaggio e i testi di Gordon, in qualche modo, riuscivano a farlo, «peraltro a mia insaputa», nota il narratore: «Mi sforzai di immaginare le mie poesie, qualsiasi altra poesia, come macchine capaci di far succedere le cose, cambiare il governo o l’economia o anche solo il loro linguaggio, il complesso delle loro funzioni sensoriali, ma non riuscivo a immaginarlo. Eppure se immaginavo invece la completa vittoria di tutte quelle altre cose sulla poesia, se immaginavo, con una stretta al cuore, un mondo privato anche dei peggiori pretesti per fare poesia che rimanessero fedeli alle possibilità virtuali di quel mezzo d’espressione, privato dei rituali assurdi come quello cui avevo partecipato quella sera, allora intuivo una perdita inestimabile, una perdita non delle singole creazioni artistiche ma dell’arte stessa, e perciò infinita, il trionfo completo di ciò che è tangibile, e mi resi conto che, in un mondo del genere, avrei preferito ingoiare un flacone di pillole bianche».

La poesia, insomma, non è in grado di far accadere nulla, non cambia lo status quo delle cose, eppure Gordon intuisce che continua ad avere un valore a cui non riesce dare un nome preciso e non riesce a descriverlo se non per via negativa. La poesia è socialmente inutile, ma forse a qualcosa serve, e se pure nessuno è riuscito a dire cos’è, nella sua essenza, una rosa (ce lo diceva meravigliosamente Caproni in Res Amissa), val pur la pena di non buttare via versi e prosa.

La risposta si può trovare nell’ultimo libro di Ben Lerner, Odiare la poesia (appena tradotto da Martina Testa per Sellerio) in cui l’autore cerca di spiegare perché tutti, autori e lettori, sotto sotto, odiano la poesia. Il punto di partenza del discorso di Lerner è un saggio di Allen Grossman The Long Schoolroom (1997) in cui viene definita la bitter logic of poetry (l’aspra logica della poesia): per Grossman la poesia è destinata a fallire in partenza, il poeta è mosso da un desiderio di trascendenza, dalla volontà di andare oltre il mondo ordinario della rappresentazione. Volontà che rimane inevitabilmente frustrata perché la poesia ricade necessariamente nei modi della rappresentazione: il poeta fallisce perché il linguaggio non può non replicare le strutture che cerca di rimpiazzare. Si instaura così una dialettica fra una poesia virtuale, cui il poeta tende, e una poesia attuale che vi si avvicina, ma ne rappresenta anche il fallimento, le poesie sono strutturalmente condannate da una aspra logica che non può è essere superata da alcun livello di virtuosità: «la poesia non è difficile, è impossibile».

Per Grossman la poesia nasce dal desiderio di oltrepassare l’umano, il finito, il contingente, la storia, per raggiungere il trascendente e il divino. Ma non appena il poeta si muove dall’impulso poetico per arrivare alla forma attuale «la canzone dell’infinito», come afferma Lerner in un’intervista a Tao Lin, «è compromessa dalla finitudine dei suoi termini». In questo senso la poesia è sempre la registrazione di un fallimento: non si può attualizzare l’impulso che dà vita al testo poetico senza tradirlo. Al contrario di Grossman, però, per Lerner il punto nodale non è tanto la trascendenza, il divino o una qualche forma non precisata di spirituale, ma piuttosto ciò che dà vita all’impulso poetico è un più generico desiderio di pensare a un’alterità, che nel suo caso specifico si configura come una volontà di immaginare qualcosa fuori dalla logica del capitalismo. La poesia dovrebbe significare un’alternativa ai valori che circolano nel nostro quotidiano, ma le poesie attualizzate non possono realizzare l’alternativa. Questo è il motivo per cui dire a un poeta di trovarsi un “vero lavoro”, dice Lerner, è un comando potente a tradizionale: fai un lavoro attuale, per una volta, e non uno virtuale.  Ma in ogni caso il fallimento può significare, ci tiene in contatto con le nostre capacità formali di immaginare qualcosa di diverso, che non c’è ancora, anche se non possiamo conquistarlo.

Dunque l’odio nei confronti della poesia (che contagia anche i poeti stessi) per Lerner può spiegarsi in due modi: può essere un modo di esprimere, negativamente, la poesia come ideale, un modo di esprimere il nostro desiderio di esercitare delle capacità immaginative per ricostituire o riorganizzare le basi sociali del mondo, oppure può essere una rabbia difensiva contro la pura suggestione che un altro mondo, un altro metro di giudizio, è possibile. In quest’ultimo caso odiare la poesia è una reazione contro il simbolo di quello che stai reprimendo: creatività, comunità, desiderio per un metro di giudizio che non sia calcolativo. La Poesia, scrive Lerner, diventa una parola per un esterno che i testi poetici non possono cogliere a pieno, ma può essere sentito, seppure come un’assenza, sebbene con imbarazzo.

Da questa prospettiva si possono leggere anche le accuse che si rivolgono ciclicamente alla poesia, annunciandone la morte. In Italia accade circa ogni estate, quando, in preda alla calura o alla noia, il professorone di turno, ex critico militante, scrive l’epitaffio del genere poetico. È vero che la poesia è una nicchia sempre più ristretta, è vero che la maggior parte della miglior poesia italiana non è pubblicata dalla bianca Einaudi o dallo Specchio Mondadori, ed è anche vero che in giro si leggono tante cose non valide (ma il discorso vale per qualsiasi discorso al tempo del web), ma ha ragione Franco Buffoni quando dice che, pur mancando grandi maestri, la qualità media si è alzata e resta valido quanto sosteneva Edoardo Sanguineti ormai undici anni fa: la poesia sta bene e se ne scrive e se ne legge più che in passato. Semmai tali proclami di morte della poesia sono il sintomo del timore che le nostre capacità immaginative si siano atrofizzate; che la commercializzazione del linguaggio sia completa. Il numero reale di poesie scritte e lette appare irrilevante per la certificazione di morte della poesia: Lerner, infatti, sostiene che quello che il funesto annuncio riflette è più un’ansia culturale riguardo alla nostra capacità di immaginare e agire in modo alternativo che un’affermazione empirica sulle poesie. L’incapacità di immaginare e agire in modo alternativo è stata sottolineata da molti come una delle caratteristiche del nostro tempo: Mark Fisher in Capitalist Realism, Guido Mazzoni ne I Destini Generali, Daniele Giglioli in Stato di minorità, per fare solo alcuni nomi. E proprio per questo che, allora, Adam Gordon (e di conseguenza Ben Lerner) indirettamente dichiara l’importanza della poesia: in un mondo che ne sia completamente privo tanto vale chiudere bottega.

È proprio questa la parte più interessante del discorso di Lerner e Odiare la poesia è anche un ottimo strumento per comprendere tutto il lavoro Lerner come poeta e narratore. Purtroppo in Italia il suo lavoro poetico è quasi sconosciuto (l’unica traduzione esistente è Angolo d’imbardata IV, una sezione di Angle of Yaw, alcuni estratti si possono leggere su GAMMM, assieme a Ventuno salve di cannone per Ronald Regan e su Le parole e le cose sono disponibili alcune mie traduzioni da Mean Free Path), ma i due romanzi hanno avuto un discreto successo. Entrambi giocano sul crinale ibrido fra realtà biografica e finzione. Nel mondo a venire, soprattutto, è un chiaro esempio di autofiction: Ben Lerner è il protagonista narratore del suo secondo romanzo e gioca continuamente a manipolare i fatti della sua vita. La finzione ha lo scopo di testare le potenzialità virtuali della scrittura, mette in scena la tensione verso un virtuale mai raggiungibile e appropriabile e il suo rapporto con l’attualità della nostra vita. L’interesse di Lerner è tutto sul modo in cui viviamo le finzioni, sul modo in cui hanno effetti reali, diventano quindi fatti e, di conseguenza, sul modo in cui la nostra esperienza del mondo cambia in rapporto a come si adatta a una narrazione. Inserire degli elementi inventati raccontando le proprie esperienze serve a Lerner per immaginare delle altre possibilità per questo nostro mondo e per questa nostra società, non a caso la narrazione si svolge sullo sfondo di due catastrofi, una personale (la malattia del narratore) e l’altra collettiva (l’uragano su New York), restituendo quel sentimento di incertezza, paura e spaesamento del nostro vivere contemporaneo. Si ricrea, così, quella tensione fra virtuale e attuale che è, per Lerner, alla base della poesia e lo stesso discorso si può trasferire sul soggetto. Si cerca allora di testare le potenzialità di cambiamento del sé, di lavoro sul proprio io, nella speranza di ritrovare la possibilità di un senso di comunità, di rapporto con gli altri, in un mondo in cui essere se stessi è un imperativo categorico e contemporaneamente la propria identità è sempre rielaborata e costruita dall’immagine che se ne offre sui social network – e si aggiunga che il precariato, imponendo un continuo cambio di lavoro a un uomo che, dopo la modernità, ha imparato a identificarsi per il mestiere che fa, determina un modello di zapping dell’io, un io sempre più individualistico, allontanato da una dimensione collettiva.

Walt Whitman, non a caso, è uno degli autori con cui Lerner si confronta più assiduamente in tutte le sue opere e in Odiare la poesia sancisce la definitiva impossibilità del suo progetto universalistico: la poesia non può riconciliare l’individuo con il corpo sociale e quindi trasformare milioni di individui in un autentico Popolo. Quello, semmai, che può fare la poesia – e quello che vuole fare Lerner con la sua poesia – è ben riassumibile dall’immagine della virga che torna a più riprese nella sua ultima raccolta poetica (Mean Free Path) e si trova anche fra le pagine di Odiare la poesia. La virga è una sorta di fenomeno atmosferico: è pioggia che non tocca mai terra o perché rimane attaccata alle nubi o perché sublima prima di toccare il suolo attraversando l’aria. Così è anche la poesia: è la possibilità della pioggia che però, non ci bagna mai, eppure ci permette di cogliere per via immaginativa l’esistenza della possibilità, di un mondo a venire.

Lerner ha capito che non c’è più bisogno del pessimismo della ragione e dobbiamo sempre più cercare di recuperare l’ottimismo della volontà: il mondo a venire che dà il titolo al suo secondo romanzo, allora, è quello che può essere immaginato dai fallimenti della scrittura che, tendendo verso un virtuale irraggiungibile, riesce comunque a restituire il senso dell’importanza di immaginare strade diverse. Se la finzione ha un valore è perché è in grado aprire lo spazio della possibilità. Il mondo a venire, confessa Lerner a Tao Lin, in un certo senso è già qui, anche se non ancora disponibile. «Trovo questa idea molto potente per diverse ragioni» dice Lerner, «per prima cosa è un antidoto contro la disperazione. Molti dei pensatori di sinistra che sono importanti per me enfatizzano come il capitalismo sia una totalità, come non ci sia via d’uscita. Sappiamo tutti cosa significa: ogni relazione può sentirsi saturata dalla logica di mercato. Ma sono sempre più dalla parte di pensatori come David Graeber che stanno enfatizzando come ci sono una serie di momenti nelle nostre vite quotidiane che rompono – o potrebbero rompere – dalla logica del profitto. Zone di libertà, anche se non è mai pura. E mi piace pensare – consapevole che è una finzione – a quei momenti come frammenti di un mondo a venire, un mondo dove il prezzo non è l’unica misura di valore».

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