Letteratura

Perché non possiamo non dirci “mediterranei”

di
22 Ottobre 2017

 

Scrivere per raccontarsi, quest’atto che appare ed è privatissimo, è in realtà un modo per stare al mondo, per darsi al mondo, per dirsi al mondo.
Siamo come siamo nello stile del nostro stare presso gli altri e presso noi stessi, fedeli o infedeli a noi stessi e alle nostre idee, e soprattutto alle nostre speranze.
E’ quando siamo non più uniti alle nostre speranze che iniziamo a capitolare, a cessare di essere altro, diversi, contro e così via e diventiamo concordi, uniformi e prigionieri dell’ovvio.
Noi, dunque, veniamo da un altro luogo e giungemmo qua, dove ci incontriamo, non per naufragio, ma per un deliberato percorso della vita.
Ed eccoci qua, in una terra mediana mentre portiamo con noi il sole e il vento del Mediterraneo e la dolcezza e la quiete delle colline dell’Italia interna.
Il nostro sguardo si fa doppio e i ricordi ci assalgono a volte e allora vogliamo dire: abbiamo appreso la regola più necessaria del nostro mare, e oggi della nostra terra.
Per ognuno che va, c’è qualcuno che resta; per ognuno che parte, ci dev’essere qualcuno che attende; per ognuno che sfida la sorte nel viaggio, c’è un altro che la sfida nella permanenza.
L’essenza del Mediterraneo, come già ci insegnava con modestia Montale, è duplice, bina, ambivalente e a tratti ambigua.
Per ogni Ulisse che naufraga, ci dovrebbe essere una Nausicaa che lo accoglie e per ogni andare c’è uno stare. Un mare che è padre ed è madre disse il poeta; superficie e profondità; lontananza e vicinanza; presagio d’infinito e coscienza del limite (Colonne d’Ercole); un mare che fu grande abbastanza per l’Odissea, le Argonautiche e piccolo per essere chiamato – con una formula di chiusura – lago romano.
C’è un modo per ricordare tutte queste cose?

Le città di mare con porto, attraverso la pittura prima e la fotografia poi, offrono due possibili prospettive.
La città può esser vista da dentro, con le sue strade, i suoi squarci che si gettano alfine nel mare, nel blu della distesa; sono aperture improvvise, solcate dal vento che rende la città vivibile anche in piena estate; un venticello di mare che, nonostante l’inquinamento, le auto, il caos, arriva ancora e sorprende.
La città può essere vista da fuori, giungendo, arrivando, conquistando o amando.
Ed eccola allora la visione dell’insieme, è come nelle più celebri cartoline e disegni e fotografie.
Due ottiche, dunque, due prospettive.
Un dubbio deve allora insinuarsi nella nostra misera cultura dell’oggi: chiusi dentro i nostri perimetri spesso non vediamo l’insieme e scambiamo la nostra visione per il tutto; dall’interno delle nostre città, delle nostre culture, dei nostri linguaggi erigiamo barriere, innalziamo mura, ci crediamo al centro e non lo siamo.
Chi giunge da lontano potrebbe avere una visione d’insieme che non abbiamo più o non abbiamo mai avuto; chi giunge, guarderà la nostra città, la nostra terra dall’esterno e ne vedrà l’immensa bellezza di speranza e di vita.
Partono i bastimenti per terre assai lontane….
Ecco, dunque, è solo all’atto della partenza che tanti poterono vedere la propria terra nella visione d’insieme; è allontanandosi, che capirono quanto lasciavano e compresero quanto amavano ciò che lasciavano; oppure la rividero tornando, e capirono da lontano di essere a casa.
E questo racconto vale in ogni punto del Mediterraneo, un mare che non è un oceano e che contiene in sé anche ciò che sembra escludere, che contiene in sé l’altro, la voce dell’altro, la musica dell’altro, la cucina dell’altro, le parole dell’altro.
Un mare in cui andare e tornare appartengono alla stessa storia; un mare in cui lo scambio in tutti i sensi è stato ricchezza e cultura, scontro e pace e così via.

Nausicaa è accogliente perché lo straniero, pur perso nel vuoto della memoria, è un essere umano, un suo simile che, nella differenza, restituisce alle fattezze umane.
Egli è tornato, però, a essere davvero Ulisse solo nell’istante in cui ha ricordato la sua storia.
Ecco la magia assoluta del Mediterraneo: luoghi e persone sono la stessa cosa; ci si presenta nella discendenza o nella città d’origine; si è figli di un re o re di Itaca; si è perché si fa parte di un luogo o comunità; si è perché si conosce il proprio volto nel volto dell’altro; si è perché ci si riconosce nelle parole che ci presentano e nell’attenzione degli altri; si è perché il nostro nome è detto e c’è detto e ricordato ogni volta; se non sapessimo dire il nostro nome non avremmo possibilità di richiamarci l’uno all’altro come ospiti e vicini.
E così comprendiamo pienamente in quale luogo noi siamo, guardandoci nello sguardo di chi giunge o in quello di chi parte o ritorna; e chi parte sa di allontanarsi da uno sguardo che continua a reclamarlo, definirlo, interrogarlo. Uno sguardo altro che finisce con restituirci a noi stessi.

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