Letteratura
Per una topografia letteraria: Holt
Holt è la città letterariamente costruita da Kent Haruf a partire da un romanzo del 1984 ora tradotto in italiano: “Vincoli” (NN editore).
Holt è una cittadina del Colorado. Non lontana da Denver. Ma se la cercate su Google Maps non la trovate (come non trovate “South Park”, sempre in Colorado, sempre per grazia di una fondazione creativa).
Nasce dalla fervida ma metodica fantasia cartografica di Kent Haruf (Pueblo, 24 febbraio 1943 – Salida, 30 novembre 2014), uno scrittore che ha avuto il merito – lo hanno sovente i grandi scrittori – di immaginarla dall’inizio e di non abbandonarla mai come un’ossessione permanente. E il merito che hanno i grandi scrittori è, appunto, questa metodica coerente ossessione verso il racconto di una cosa, un pensiero, un tempo. Verso il racconto spesso a dispetto dei rifiuti.
Il libro che ora NN editore manda in libreria, “Vincoli” (che semplifica ossificandolo l’inglese “The Tie That Binds” chissà se criptocitazione da uno Springsteen del 1980, “The ties that bind”), ci conduce all’origine di quel progetto di fondazione letteraria. Un testo dell’84 che già recava in sé un disegno che poi avrebbe accompagnato questo autore, allora 41enne, per gli anni a venire. Lo fa principiando dai primi anni del 900 sapendo, forse, già che il resto sarebbe venuto da sé. E’ notevole pensare quanto Haruf – un percorso accidentato ma non accidentale nella scrittura – abbia un po’ previsto tutto dall’inizio. Come se lo avesse visto, immaginato, o progettato dall’inizio a dispetto degli ostacoli.
Holt sarebbe stata la sua Macondo ma con intenti meno magici. Quasi un rendering di qualcosa che avrebbe potuto esserci in ogni caso. E come un rendering la sua Holt aveva già quello che poi si sarebbe potuto allargare, amplificare. Un posto come tanti, proprio lì dove lo scrittore viveva. Quasi una semplice necessità di alienazione simbolica.
La letteratura nasce per orientarci. Normalmente lo fa partendo da coordinate interiori per risolvere o aiutare a risolvere rebus interiori ma c’è spesso un intento guida in quel cercare di indicarci una direzione, anche solo per accompagnarci e senza intenti necessariamente visionari.
Anzi a ben vedere la riduzione a uno della scrittura d’invenzione potrebbe trovarsi in questo scopo “pastorale” (sia detto in termini di assoluta laicità e di nessuna pretesa subordinazione tra narratore e lettore). Cosa che diventa evidente quando uno scrittore riesce a creare dei mondi (reali/stici, distopici o comunque frutto di invenzione).
Recentemente la Rizzoli ha mandato in libreria un bel testo di mappe da libri (“Atlante dei luoghi letterari. Terre leggendarie, mitologiche, fantastiche in 99 capolavori dall’antichità a oggi” di Laura Miller). Ovviamente per restrizioni da campionatura non c’era tutto ma tutto quello che – in un’ottica molto anglosassone con simpatie afro – dovrebbe esserci. A noi italiani è toccato in sorte (a parte Dante, Ariosto e Campanella) il solo Calvino e le sue invisibili città anche se non siamo proprio gli ultimi al mondo in fatto di generatività urbanistico-letteraria. E’ bello camminare in una valle verde, avrebbe detto la pubblicità. In generale bello è camminare in un luogo ben disegnato. Bello è accompagnare i lettori in un posto coerente: sia esso una città o il verde di cui prima.
Il merito di questo libro cartografico è appunto in questa volontà di restituirci quella riuscita mappatura che sia da “Gilgamesh” o da Salman Rushdie. Quasi cento mondi fantastici, in un’antologia che mette insieme l’Odissea, Narnia, Orwell, l’ancella” della Atwood, l’America di “Infinite Jest” di Wallace o il Giappone di “1Q84” di Murakami. Per epoche di tempo. Ed è bello scoprire come dei luoghi inventati possano avere una realtà percepita così definita.
La Holt di Haruf ha anche lei dei segni distintivi: campi di granturco a distesa, mucche. Interni scarni, Fattorie vaste e isolate. Ovviamente le cose cambiano negli anni a Holt. Persino la scrittura di Haruf, come annota il bravissimo traduttore Fabio Cremonesi, si fa più aspra con gli anni come se il cantore di questa odissea al contrario – l’epopea di un un rimanere più che un andare con rare eccezioni a conferma della regola – abbia nel tempo trovato una voce diversa (più rassegnata? più consapevolmente acquietata nel tempo?) per raccontare le gesta urbane di Holt. In “Vincoli” cedendo al cesello, in “Trilogia della pianura” (e nel suo testo capolavoro, in particolare “Canto della pianura” – gli altri sono “Crepuscolo” e “Benedizione” – tutti per NN editore) cercando volutamente la distanza, l’osservazione più fotografica possibile. Lavorando strenuamente su una fiamma di talento con metodo come scrive in un saggio sulla scrittura di grande onestà autoriale e sincerità personale pubblicato da “Granta“.
I felt as though I had a little flame of talent, not a big talent, but a little pilot-light-sized flame of talent, and I had to tend to it regularly, religiously, with care and discipline, like a kind of monk or acolyte, and not to ever let the little flame go out.
Nel corso del racconto, che impegna Haruf per un trentennio, i protagonisti disegnano una loro genealogia, si intrecciano, si conseguono o anticipano. Insomma, tutto si tiene. E questo crea una congruità non solo di fatti ma anche di luoghi che si è potuta persino disegnare in una mappa.
Questa quella di Franco Matticchio della città mentre (sempre nel cofanetto della Trilogia c’è quella disegnata di Marco Denti della contea intera).
Non è importante qui partecipare alla consueta guerra che si scatena quando uno scrittore esce dalla nicchia ovvero si trova a mezzo tra folle osannanti e tiratori scelti o plotone d’esecuzione (c’è, si sa, chi sta sull’orlo ad attendere quel fatidico momento con goduria e chi ci si mette in un secondo tempo insieme a tutti gli altri per non rimanersene da solo) che non perdonano a un libro la sua commercia(bi)lità.
Saltando a piè pari il tema “che fine fa uno scrittore che vende più di un target ritenuto di pubblico preparato a capirlo?” ci vogliamo soffermare su quella capacità che ha la letteratura di creare mondi possibili.
Haruf con Holt è riuscito a operare questa magia che è diventata anche la magia di caratteri in qualche modo “parenti” come se “essere di Holt” potesse significare essere burberi ma generosi, buoni ma dopo atti e pensieri di pericoloso isolazionismo o irrevocabilità (“Vincoli” ne è quasi strabordante). E questo ha visto il suo capitolo finale nell’amore adulto e tardivo di “Le nostre anime di notte”, un testamento a fine carriera, una speranza oltre il buio della vita che è diventato anche cinema affascinando un sontuoso Robert Redford. E tutto questo non è poco.
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