Letteratura
Per un traduttore non c’è miglior autore di quello morto – Tradurre è soffrire
Un recente pezzo di Fabio Padone apparso su “Alias” del “Manifesto” dal titolo “Il piacere condizionato di scavarsi una strada nella lingua degli altri” dà conto delle attrattive e asperità del mestiere di traduttore riferendo l’esperienza di Massimo Bocchiola, traduttore dall’americano di Pynchon, Martin Amis, Paul Auster. Il testo che qui si propone di Sophie Képès a sua volta tradotto da me (vedi originale) testimonia del drammatico corpo a corpo tra traduttore e autore, specie se questi è ancora vivente. Da qui il titolo “Per un traduttore non c’è migliore autore di quello morto”.
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Il 16 novembre 1999, durante un dibattito, una signora del pubblico si presenta come traduttrice dal tedesco e dichiara: “Preferisco tradurre dei testi brevi, poiché alla 250ª pagina di un romanzo ho voglia di strangolare l’autore. Se poi è vivo e crede di conoscere la lingua francese e s’impiccia di mettere mano nel mio lavoro, ho ancora più voglia di ucciderlo!”. Questa donna si chiama Jeanne Etoré. Riconoscente, mi sono detta che avevo fatto bene, alcuni mesi fa, a proporre come tema di riflessione “Non c’è miglior autore di quello morto”. Mi sentivo, infatti, autorizzata a parlare a nome di tutti i miei colleghi, e visto che ero in buona compagnia mi sentivo già meno colpevole per le mie pulsioni omicide.
Si dà il caso che, dieci anni fa, abbia trascorso due anni della mia vita al servizio di un autore ungherese contemporaneo, Peter Esterházy. Tutto quel che esiste di questo autore era allora molto distante da me, per quanto riguarda lo stile e gli argomenti, ma ciò non gli ha impedito di insediarsi in me in maniera fortemente inopportuna. Per questo motivo, dopo aver chiuso con quell’autore, ho sempre fatto attenzione a tradurre autori già morti o testi brevi. Sto molto meglio, grazie!
Si trattava di tradurre Trois anges me surveillent, les aveux d’un roman (Gallimard, 1989), che diventò poi un manoscritto di ottocento pagine. All’inizio pensavo che l’ermetismo dell’opera fosse dovuto alla mia scarsa padronanza della lingua ungherese, fino a che un letterato ungherese mi confessa non solo di aver rinunciato a leggere l’originale appena alla trentesima pagina, ma che il libro presentava tante difficoltà quante l’Ulysses di James Joyce. Troppo tardi. Il contratto, ahimé, era stato firmato ed avevo già incassato la cospicua somma dell’equivalente di 10 franchi all’ora circa (cosa che ho poi potuto calcolare solo a lavoro terminato).
Il testo era d’un incredibile ermetismo, frutto della censura ideologica e all’autocensura che all’epoca affliggevano i paesi satelliti dell’Unione Sovietica. Allusioni, citazioni senza rinvii né virgolette per le opere proibite (gli universitari la chiamano intertestualità o postmodernismo, affari loro); un romanzo dalla forma pop art di cui l’apparato delle note costituiva i due terzi, un gioco di maschere con lo zdanovismo degli anni cinquanta per il quale il traduttore si supponeva conoscesse sia le regole della caccia ad inseguimento sia il gergo del calcio come anche le Conversazioni di Goethe con Eckermann e i dibattiti parlamentari del XIX secolo (dopo il compromesso del 1867 da cui nacque l’Austria-Ungheria), i trattati sia di colombofilia sia di cinematica, per non tacere della vita privata dell’autore. Tutto questo nei minimi dettagli, ovviamente. Già la scelta del titolo francese fu un’acrobazia; avevo proposto all’autore “romanzo-kit”, “romanzo-kyste”, “romanzo-sic”, gli piacque l’ultimo, e, ovviamente, l’editore lo ribattezzò in maniera del tutto arbitraria.
Ho davvero sofferto molto. Jacques Thériot, traduttore dal portoghese evoca “quei momenti d’esasperazione e di forte scoramento, spesso insostenibili, che vengono dalla lotta col testo”. Ricordo, un pomeriggio, di essermi staccata con forza dal computer e dai dizionari e d’aver disceso di corsa i sei piani di scale della mia mansarda, per evitare di passare all’azione, cioè distruggere il lavoro accanito di diciotto mesi
Dovevo costantemente chiedere spiegazioni a Péter Esterházy riguardo alle sue intenzioni e le liste di domande erano diventate delle colonne degne di una cattedrale. Lui non parlava una parola di francese e io – come spiegherò più avanti – non parlavo ungherese, c’era bisogno di un intermediario che aggiungesse domande di suo, nel crescente dubbio di perfezione. (L’isterismo ossessivo è molto frequente tra i traduttori coscienziosi; può portare all’impotenza totale a causa del perfezionismo paralizzante). Bisognava cercare degli equivalenti nel contesto francese e interpolare altrove, ove fosse possibile, per compensare i tagli. È una costante in tutte le traduzioni, ma qui dovevo riscontrarla in maniera sistematica, ad ogni passo e dappertutto. Credo che ciò che mi ha salvata dall’odio puro e semplice per quel testo e per quell’autore, sia stata l’ironia e la tenerezza che emanava, malgrado tutto, la famosa autoderisione dell’Europa centrale.
È senz’altro utile e confortante talora poter fare delle domande a uno scrittore molto autoreferenziale, quando non bizantino (esiste una corrente letteraria di questo genere nell’Ungheria postcomunista). Per questo mi compiaccio degli scambi con Péter Lengyel nel tradurne i testi; è lui stesso traduttore di lingue romanze ed è quindi tutto a suo vantaggio se gli chiedo pareri e delucidazioni su termini rari e oscurità volute, di cui i suoi scritti sono pieni. Sono ancora più convinta, però, che si possa tradurre solo appropriandosi del testo straniero ricreandolo nella propria lingua. È per questo che troppi interventi da parte dell’autore vivo possono talvolta essere sentiti come una violenza. Peggio ancora se l’editore impone un co-traduttore: l’omicidio è assicurato! Non sto esagerando. Rivalità, odii feroci per una virgola, lettere raccomandate con ricevuta di ritorno… non potete immaginare. “Io!”, “No, io!” – urlano i due galeotti inchiodati allo stesso banco, loro malgrado. Un inferno, vi assicuro.
René de Ceccaty, scrittore e traduttore dall’italiano, spiega la sua sofferenza dicendo che “il traduttore arriva al punto di non vedere altro che i difetti del testo sul quale sta lavorando”: poiché per tradurre bisogna analizzare a fondo e si rischia di diventare severamente critici fino ad assumere involontariamente un atteggiamento usurpatore, convinti che noi, noi l’avremmo scritto meglio, no? Dimentichiamo che il traduttore parte da un lavoro già terminato e che le eventuali revisioni risultano facili a chi deve appena iniziare, arrivando a stupide recriminazioni del tipo: “Autore, mon semblable, mon frère ! E’ forse per malanimo che tu non scrivi esattamente come me? Mi sarei comportato così al posto tuo?”.
Non si tratta per intanto di occultare l’opera tradotta e l’autore, ponendosi avanti e facendo la ruota come un pavone (gli ungheresi si divertono nel pretendere che Shakespeare tradotto è ancora più geniale che in inglese!). George-Arthur Goldsmith, “gallinaceo di lusso della traduzione”, come lui stesso si definisce nel suo recente libro La Traversée des fleuves (Seuil), sostiene che il traduttore è colui che si annulla, diventa autore molto raramente, cioè quando si manifesta una perfetta coincidenza tra lui e l’autore. Annie Saumont, novellista e traduttrice dall’inglese, gli fa eco: “Se un autore scrive in maniera molto simile alla mia, ho la tendenza inconscia a tirare il suo testo in direzione del mio modo di scrivere”.
In fondo si tratta di un continuo va e vieni, una dialettica chiaramente descritta da Jean-Pierre Carasso: “Tradurre significa riuscire a pensare due cose contemporaneamente, ma spesso il traduttore è paralizzato dalla lingua originale. Non che sia incapace di scostarsene, ma di farne riferimento dopo essere passato alla sua”. Questo va e vieni incontra molte sconfitte e poche vittorie, poiché come sostiene Cécile Wajsbrot, traduttrice di Virginia Woolf: “Qualsiasi scelta è criticabile e ogni soluzione adottata risulta in certo qual modo artificiale. Sacrificare è obbligatorio”. Lo sconforto è la norma. A questo proposito, una delle più belle massime di scrittore che io conosca riguardanti l’atto di devozione che consiste nel trasferire una grande opera da una lingua ad un’altra, appartiene al mio autore ungherese preferito, Dezsö Kosztolányi, di cui riparlerò: ” Il traduttore crea un falso dal vero; tradurre significa eseguire una danza mani e piedi legati”.
Ma allora, perché tanto masochismo, mi direte voi? Semplicemente perché traducendo si ha la migliore occasione per effettuare esercizi di scioltezza e far crollare i legamenti della lingua materna; contrastati dal doverla mettere al servizio dello strano straniero, ne apprendiamo sul suo conto più di quanto avremmo fatto in dieci anni di scrittura. René Ceccaty sottolinea che “per uno scrittore, entrare nell’universo di un altro scrittore, usare un vocabolario inconsueto, scoprire un altro sistema, è straordinario”. Insisto: traducendo impariamo più la nostra lingua, nostro prezioso strumento di lavoro, che quella straniera. Allora, al diavolo i sentimenti ambivalenti, al diavolo se l’ammirazione si confonde con il rifiuto e l’amore con l’odio. Ludi cartacei! Ricordo che ho scelto un aspetto particolare e passionale della traduzione, trascurando volutamente gli altri aspetti più gratificanti. È evidente che accettare la sfida di penetrare nei meandri di una lingua rara o entrare nel ruolo di ambasciatore di una cultura, dà delle soddisfazioni enormi.
Ecco appunto alcune considerazioni sulla lingua ungherese o magiara. Faccio innanzitutto notare che alla Bibliothèque Publique d’Information del Centre Georges Pompidou, il settore ungherese è incastrato tra quello turco e quello cinese, accanto al fantastico e alla fantascienza. Un motivo, forse, per conferire al magiaro un qualcosa d’irreale, di straordinario? Effettivamente ha una struttura del tutto diversa dalle altre lingue indoeuropee, appartiene al gruppo ugro-finnico, originario – per semplificare – della Cina attuale insieme al finnico, l’estone e altre lingue arcaiche parlate in Russia (le cito a memoria per il gusto di farlo: il mari, il mansi, il ciuvascio, il ceremisso, il vogulo). Ecco alcune particolarità sconcertanti del magiaro: la regola dell’armonia vocalica (nessuna mescolanza di vocali scure nella stessa parola – a, o, u e chiare e, è, i -), l’accento tonico sulla prima sillaba della parola e della frase (al contrario della prosodia francese), nessuna preposizione ma posposizione o suffisso, nessun genere ma nientemeno che nove casi, un solo tempo del passato e una coniugazione detta oggettiva (la forma verbale integra il complemento oggetto della terza persona) e un’altra soggettiva senza verbo essere al presente, alla terza persona singolare, ecc. Una grande facilità nel creare neologismi poiché il magiaro è una lingua evolutiva e plastica.
Patrice Leigh Fermor, nel Le Temps des offrandes (Payot, Voyageurs), evoca: “All’improvvisa e sbalorditiva irruzione del magiaro, il panorama si trasformò – trotto dattilico (= una sillaba lunga, due brevi) dove l’accento di ogni prima sillaba faceva filare una truppa di vocali identiche i cui accenti s’inclinavano tutti nella stessa direzione come spighe di grano a satelliti dell’Unione Sovieticavero? Fa pensare ad un paesaggio della puszta, la pianura dell’est dell’Ungheria.
Lo confesso, non parlo ungherese. Mio padre vi è nato. Dal 1968 sono stata diverse volte in Ungheria ma troppo poco per praticarne la lingua. Ho forse bisogno di restare lontana da questa lingua “paterna” e che ho iniziato a studiare da quando avevo 24 anni? Mi ricordo che nel corso di Lingue Orientali gli studenti che avevano entrambe i genitori ungheresi, parlavano bene l’ungherese, quelli che avevano solo la madre ungherese lo parlavano abbastanza bene, quelli come me che avevano solo il padre ungherese, non lo parlavano quasi per niente. Ho potuto notare un altro tipo di stratificazione: nella seconda generazione il primogenito parlava meglio dei più giovani, descrivendo concretamente la curva dei progressi dell’assimilazione, dell’acculturazione dell’immigrato.
Entrambi i meccanismi leggere e parlare non agiscono nella stessa sfera cerebrale, dicono i neurologi; questo stupisce molto gli ungheresi per il fatto che si possa capire, tradurre ma parlare malissimo. Eppure gli stessi grandi scrittori ungheresi, che per tradizione sono spesso anche traduttori – la sorte delle “lingue minori” non è poi tanto ingrata quanto può sembrare poiché obbliga ad aprirsi al mondo -, spesso non parlano la lingua che traducono. Non è necessario. Ivan Nabokov, editore per Plon, ricorda che “uno dei suoi migliori traduttori dall’inglese parla l’inglese molto male e non è mai stato negli Stati Uniti”. E Jean-Paul Carasso: “Si può tradurre una lingua che non si conosce ma bisogna documentarsi.”
Citerò a questo punto Armand Robin (1912-1961), per cui provo profonda ammirazione, poeta e traduttore di diverse lingue rare tra cui l’ungherese, ma anche l’arabo yemenita, il cinese antico, il russo, il bretone arcaico, il gallese, il fiammingo, lo sloveno, il macedone D’altronde la sua prima lingua fu il bretone, prima del francese, la cui scoperta lo affascinò. Non faceva sfoggio delle sue competenze ogni volta che esplorava un campo del sapere, ma consultava specialisti di vaglia ad aiutarlo in caso di bisogno. Il germanista Jacques Martin gli rende questo invidiabile omaggio (in Armand Robin di Alain Bourbon, Seghers, Poètes d’aujourd’hui): “Conosceva il tedesco quanto un alunno di seconda ma con un’esperienza da adulto, di poliglotta saputo, Hölderlin era un suo collega, un fratello, secondo lui. Traduttore eccellente, aveva tendenza a restituire ad ogni termine tutto il succo etimologico anche se nel frattempo era cambiato. La frase, canovaccio logico, non lo preoccupava più di tanto. Saltava da una parola stramba all’altra come si passa un torrente da pietra a pietra, declamando sottovoce alla ricerca del ritmo. Giustapposte, sonorizzate, le parole stesse rendevano il quadro. Bisognava quindi ricondurlo al testo, distruggere combinazioni azzardate e mostrargli il filo conduttore. Alla fine aveva ragione lui: se imbroccava una direzione sbagliata, ritrovava subito la strada, ne avvertiva il ripiego. Nessuna sterpaglia o sentiero gli facevano perdere la traccia, aveva un fiuto da stregone.” Questo fiuto da stregone in cosa consiste? Grazie a quale opera dello Spirito Santo si traduce? Hubert Nyssen, che dirige le edizioni “Actes Sud”, sottolinea che “i migliori traduttori sono quelli con la facoltà medianica, o quasi, di empatia con l’originale”. Per questo Ivan Nabokov sostiene che “i cattivi scrittori fanno cattivi traduttori”. Quando si scopre un testo straniero e si hanno delle capacità narrative o si è accaniti lettori, si è in terre note. Fiutiamo il testo prima di capirlo, indoviniamo la coerenza interna, ne “intuiamo” il tono. Empatia e osmosi diventano parole imperanti. Questo succede in entrambe i casi: se ad un autore vivo, che ignora totalmente la nostra lingua, chiediamo di chiarire il senso di quello o quell’altro termine raro, tra tutte le voci del dizionario può essere capace di trovare quella che più corrisponde alla sua intenzione (caso redatto da Alain Lance, poeta e traduttore del poeta tedesco Volker Braun).
Insomma, scrittura e traduzione, appartengono allo stesso spazio senza frontiere: la letteratura. Armand Robin spiega questo fenomeno dicendo che: “Ogni bel poema è per natura un controsenso orientato dall’armonia. Niente deve o può esonerare il poeta traduttore dall’imperioso dovere di creare un controsenso equivalente in un’altra lingua; non si ha a che fare soltanto con parole, bensì con il miracolo che le ha rese poesia; per raggiungere la perfezione bisogna lasciarsi sedurre da un rigore terribile di cui le noncuranze dell’esattezza non rendono l’idea.” Nella prefazione della raccolta intitolata paradossalmente Poésie non traduite (vol.1, Gallimard, 1953) descrive l’osmosi tra poeti che non traduce, e sé stesso: “Essi-io siamo UNO. Non sono di fronte a me, non sono di fronte a loro. Parlano prima di me nella mia gola, assedio le loro gole con le mie future parole. Ci reggiamo suono con suono, sillaba con sillaba, ritmo con ritmo, senso con senso, e soprattutto destino con destino, uniti e separati da sangue e lacrime., ontologicamente senza fellonia Essi-io intatto UNO.” Identificazione estrema del traduttore con l’oggetto. Robin sceglieva i poeti “maledetti” come l’ungherese Endre Ády, quelli che sentiva più vicini per destino personale.
Nella poesia di Robin ritrovo alcuni elementi tipici della prosodia del magiaro: il modo di fondere gli antonimi in una sola unità grazie al trattino “Essi-io”- viene chiaramente dall’ungherese. Anch’io prima, ad esempio, avrei potuto presentare la lingua ungherese come “meravigliosa-infernale”, in una parola. Salvo che in magiaro una simile costruzione sarebbe sembrata troppo marcata.
Per terminare torno su Dezsö Kosztolányi (1885-1936), uomo di lettere completo di volta in volta poeta, giornalista, traduttore, linguista, novellista e romanziere -, influenzato dalle teorie freudiane, al di fuori di qualsiasi schieramento politico. La sua opera si situa prima, durante e dopo il crollo dell’Impero degli Asburgo. Ho tradotto il grande ciclo di novelle Kornél Esti (in cui compare la celebre storia del “Traduttore cleptomane”, Ibolya Virag), e questa volta l’empatia era tale che avevo l’impressione di tradurre me stessa, ma in meglio, se mi permetto I temi, lo stile, l’umorismo mi corrispondevano perfettamente. Attraverso minime avventure in cui il reale viene appena sviato, afferra la condizione umana nella sua assurdità e il lettore non può che riconoscere le sue stesse emozioni: ansietà, inquietante stranezza, compassione, derisione, rassegnazione.
André Karatson lo compara ad un “amico intimo che nel raccontare le sue esperienze riesce a intrattenervi con facilità sulle vostre”. Non è invecchiato poiché pone interrogativi fondamentali all’ l’individuo: “a che punto sei della vita mentre leggi i miei scritti?” Secondo Jean-Luc Moreau, traduttore di lingue ugro-finniche , “per lui l’infanzia è fonte di ispirazioni, la morte ne è il perno” Kosztolányi lo conferma nel suo Diario 1933-34: “L’unica cosa che ho da dire a prescindere dall’argomento che mi sforzo di circoscrivere è che un giorno morirò”. Ma ha anche una passione per il gioco, delle maschere, ad esempio la novella intitolata “Undici minuti” deve essere letta in undici minuti e racconta gli ultimi undici minuti della vita di un giovane che si suiciderà
Vicino allo spirito della lingua francese, cosa molto rara se non addirittura unica per un autore ungherese, sprona i suoi colleghi all’economia di mezzi e parole (per illustrare l’ideale stilistico di D.K., cf. “Deux ou trois choses à propos de l’écriture”, pp. 70-72 della raccolta Cinéma muet avec battements de coeur, tradotto da Maurice Regnaut e Péter Adám, Souffles). Etica ed estetica sono una cosa sola e secondo D.K. è il francese che ha il privilegio d’incarnare questo principio al grado più alto: “Dominare la grammatica francese significa arricchirsi intellettualmente ed elevarsi moralmente. Refrattaria alla menzogna, purifica lo spirito e nobilita l’anima. Impossibile tradurre pedanterie, imposture o affermazioni perentorie ma prive di senso: le idiozie si evidenziano subito e la materia nobile del francese le respinge immediatamente e definitivamente. Tutte le barbarie, le piattezze, il non-sense, non è francese dicono i francesi. Da loro, grammatica, stilistica ed etica si confondono” (in Notre Forteresse, la langue, 1930, raccolta postuma).
Ho quasi scrupolo a testimoniare di un simile amore per la mia lingua materna, che è poi effettivamente davvero mal pagata. Kosztolányi ha dovuto indirizzare una lettera aperta, La Place du hongrois dans le monde, al francese Antoine Meillet, professore di linguistica comparata di lingue indoeuropee al “Collège de France”, che scriveva in Les Langues dans l’Europe nouvelle (1928): “Un europeo, anche se buon poliglotta, che attraversa l’Ungheria è imbarazzato perché vi si parla soltanto il magiaro”. Questa’asinata degna di La Palice fa cadere le braccia, come anche altri altri rimproveri quali: la letteratura ungherese non ha prestigio, la lingua ungherese è stata mantenuta artificialmente dall’oligarchia, essa non dovrebbe più esistere – e qui si fa allusione alla riforma della lingua (nyelvújitás) e alla sua difesa e illustrazione (nyelvmüvelés), dettagli storici del magiaro -, cose dette e che hanno ferito in Kosztolányi l’ammirazione per l’intelligenza francese. La sua protesta contro un’ingiustizia così assurda è un capolavoro di sottile ironia: “Si direbbe che a volte odiate quest’orfano meraviglioso della lingua ugro-finnica, i cui genitori sono morti abbastanza presto, i cui cugini si sono dispersi nei tormenti della storia, e seppur senza genitori, senza fratelli né sorelle è pur sopravvissuto, sfidando le intemperie”. Effettivamente, il magiaro è rimasto quasi intatto nel corso dei secoli, malgrado le successive influenze delle culture vicine dominanti, sia germaniche sia slave. Ma riprendiamo: “Un professore di zoologia comparata che adorasse i mammiferi, ma che odiasse gli uccelli ed esercitasse un’ironia mordente sui pesci poiché respirano con le branchie, mi sembrerebbe meno strano di un simile atteggiamento. Nel suo libro, il linguista non classifica come fanno spesso i dotti, ma attribuisce decorazioni a certe lingue e le toglie ad altre” (in L’Etranger et la mort, tradotto da Georges Kassai e Gilles Bellamy, In Fine).
Sì, tradurre Kosztolányi è sempre un piacere, ma ora che la mia traduzione è conclusa, eccomi di nuovo in veste di scrittrice, unica padrona a bordo della mia stessa nave, libera dall’Altro. Almeno spero. Poiché in realtà le influenze sotterranee sono attive e quando prendo la penna (o batto la tastiera), non sono più sicura di essere da sola o…in due. Secondo voi, chi mi influenza di più: Dezsö Kosztolányi, il mio doppio, o Péter Esterházy, il mio boia? Sorpresa! Se l’autore feticcio non riesce a destabilizzarmi visto che mi identifico in lui; d’altro canto l’autore che rigetto, il caro parassita sopracitato, si siede al mio desco e si serve nei piatti, mio malgrado. Ma perché continua ad aggrapparsi ai miei piedi, pur essendomene liberata? Perché ne sono contaminata a tal punto? Forse perché il cammino che ho dovuto percorrere per raggiungerlo è stato lunghissimo ed ho ora bisogno di tempo per tornare verso me stessa? Quasi mi fossi plasmata alla sua forma, torno a scrivere “alla maniera di” Esterházy. Formule, giochi di parole e altri costrutti si scrivono sul foglio difendendosi dal mio corpo. Ne segue un periodo d’impotenza: non potrò più scrivere fino a che non avrò eliminato del tutto, estirpato dal subconscio il corpo estraneo, recuperato la mia personalità. Passeranno diversi mesi…
Io stessa non ho un mio libro integralmente tradotto in un’altra lingua, salvo alcuni articoli o brevi saggi; ma vi prego di credermi che se ciò dovesse capitare, gliene farei vedere di tutti i colori al mio traduttore. A ognuno il suo turno, dopotutto!
N.B.: Le citazioni non referenziate provengono sia dal bollettino dell’ l’Association des Traducteurs Littéraires de France Translittérature, sia da articoli di giornali, sia da conversazioni private.
Sophie Képès
Titolo originale “Pour un traducteur, il n’est de bon auteur que mort” (traduzione italiana di Alfio Squillaci)
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