Letteratura
“Pensa che cretino che è l’amore”: intervista a Luca Gamberini
Pensa che cretino che è l’amore, da poco uscito per Mondadori, arriva dopo un lungo viaggio con la poesia; un viaggio non solo metaforico, fatti di incontri, di studio, di cambiamenti, ma anche fisico, in giro per l’Italia con la tua #poesiaespressa: non a caso, il primo testo che apre questa nuova raccolta si intitola proprio così.
Vuoi raccontarci cos’è stato e cos’è #poesiaespressa e perché la scelta di iniziare così questo nuovo percorso di versi e di luoghi?
#PoesiaEspressa è prima di tutto un modo di incontrarsi perché permette alle persone di stare insieme. Che è la parola della quale ci stanno privando. Di fatto è una performance e come tale pone al centro l’atto artistico, in questo caso poetico, ovvero la scrittura di una poesia. Il mio intento è quello di riportare la poesia sulla bocca delle persone, tra la gente. Riportarla fisicamente. (Pasolini con la sua corporalità manifesta e Marina Abramovic non ti nascondo mi abbiano molto ispirato). Desidero così mostrare come la creazione di un testo poetico riveli sia un atto magico che anche popolare, e se vuoi anche pop, svecchiando l’idea che la poesia appartenga solo alle librerie impolverate, o peggio ancora ai salotti e ai caminetti di pochi. Altrimenti le persone, comprensibilmente, se ne allontanano. Non tanto perché non la amino, quanto invece per una disaffezione, una lontananza, un divario che spesso è voluto da alcuni che ritengono la poesia elitaria. Scrivere una poesia e farne dono a uno sconosciuto affinché anche questa persona si senta parte del mondo poetico: ecco pragmaticamente di cosa si tratta #PoesiaEspressa. E poi la parte sociale: incontrare le persone, ascoltare le loro storie, e scriverne è una delle forme più potenti e autentiche di ispirazione abbia mai sperimentato. Una energia e un calore incredibile.
Le sezioni che compongono l’opera, D’amore; Di rimpianti; Di comunque; Vivere sempre; Il corpo lo sa prima; è l’alba credimi; Siamo di nervi e di baci, costituiscono i fili dal cui intreccio nasce la trama della tua scrittura, volta ai grandi sentimenti del quotidiano, primo fra tutti l’amore, che tu scegli di descrivere con un linguaggio che definirei vitale, cioè connaturato e contestualizzato nella vita di tutti i giorni.
Da dove deriva questa esigenza dello scrivere d’amore in versi e perché con questo tono lessicale? C’è, e se sì chi, un riferimento al quale guardi per portare in questa direzione la tua scrittura?
Il cadavere di Pier Paolo Pasolini, martoriato, all’idroscalo di Ostia è una delle immagini alle quali mi senta più legato. Intimamente. Pasolini non ha mai avuto paura di metterci il suo corpo, oltre che la sua faccia. Lui era il suo corpo. E allora anche per questo credo che l’amore sia da vivere fino in fondo. Visceralmente. Come tu giustamente dici con un linguaggio vitale, che sappia sia di rose che – perdonami – di merda. La dolcezza con la quale Pasolini racconta delle sue prime esperienze amorose e del suo dibattito interiore dettato da una omosessualità inaccettabile dalla società del tempo – (oggi alle volte sembra lo stesso) – nell’Usignolo della Chiesa Cattolica mi hanno forgiato l’anima. Allo stesso modo mi è rimasto impresso il suo essere come “un gatto bruciato vivo, / pestato dal copertone di un autotreno, / impiccato da ragazzi a un fico ma ancora con almeno sei delle sue sette vite / come un serpe ridotto a poltiglia di sangue / un’anguilla mezza smangiata”. Chi voglia parlare d’amore e sopraelevarsi rispetto alla condizione umana, fatta di quotidiano, fatta di vita e morte, fatta di code alla cassa del supermercato e baci sotto la pioggia, non può coglierne la sua onnipresenza. Vittorio Sereni come pochi altri riesce a descrivere l’amore parlando d’altro, parlando anzi paradossalmente più di morte che d’amore. Montale poi non a caso è definito poeta delle piccole cose. Del cavallo stramazzato ma anche del braccio dato un milione di scale. E un senso di dramma come in Ungaretti non l’ho ritrovato altrove: ma un dramma condensato, raccolto, quasi solitario e per questo smisurato, tendente a infinito. Ecco alcuni nomi. Non sono certi poeti d’amore. Eppure mi hanno fornito quegli strumenti – umani – per indagare l’amore nelle sue molteplici forme. E poi certamente c’è Gabriele D’Annunzio, perché l’amore è la potenza esplosiva, devastante, dirompente, fisica, erotica. Ma c’è anche la tendenza all’amore assoluto, divino. E allora San Paolo, il nome che forse meno di altri ti aspetti. Il suo finissimo ragionamento tra la chiamata della Fede e l’Essere umano, instabile, ma tendente al divino, non manca – anche in quanto credente – di affascinarmi continuamente.
La plasticità della tua scrittura riguarda anche i luoghi, spazi concreti e materiali nei quali i versi prendono posto: ci sono gli spazi urbani dei fili del tram, i centri inanimati come Esselunga, ci sono Follonica, Pienza, Rimini e poi c’è Bologna, la tua Bologna.
Ci spieghi quale ruolo gioca “il luogo” in Pensa che cretino che è l’amore e come si correla alle dinamiche temporali su cui il tuo scrivere si muove?
Ogni fatto è un fatto storico. Con una precisa collocazione spazio-temporale. Una geolocalizzazione precisa. Siamo in ogni momento in un punto definibile e circoscritto. Il luogo è necessario per dare l’immagine-di-fondo, che di fatto è come un rumore-di-fondo, che pone nella condizione di vedere dove accada quella cosa. Non esistono luoghi impoetici. In realtà ogni luogo diventa assoluto. Se scrivo dell’Esselunga mi riferisco a tutti i supermercati dove ci siamo ritrovati a fare la spesa nelle stesse condizioni di distanziamento, coda, etc… se scrivo di Follonica penso a una qualsiasi località di mare, di turismo, affollata, etc.. se scrivo di Pienza penso alla città ideale, costruita da un Papa per amore della sua terra, un piccolo gioiello incastonato in una Val d’Orcia che da sé è poesia. Se penso a Bologna penso a casa, alla mia di casa, alla “Bologna dell’anima” che ciascuno abita, possiede. Prendo una parte, una città, un luogo, e diventano tutti i luoghi. Anche se su Bologna non ti nascondo che dovrei dirti che si tratta molto più che della mia città. È la mia fonte di ispirazione. Ho come un senso di devozione per lei. La amo alla stregua di una persona. Avverto la sua vicinanza o lontananza. Cercare l’ispirazione sotto i portici, girovagando a vuoto, non è un fatto raro. La amo, quindi la racconto, senza presunzione di campanilismo. Anzi, invitando ciascuno a ricercare la propria-Bologna, sia essa Roma, Milano ma anche piccole città, piccoli borghi, le nostre radici più profonde.
Cristina Dell’Acqua, nell’accurata postfazione che conclude la tua raccolta, parla di sinestesia, a indicare la capacità dei tuoi versi di far «sentire la vita nei dettagli». E usa un’altra parola, che mi sento pienamente di condividere in riferimento a questi tuoi testi, che è coraggio, «coraggio di far lavorare l’interiorità […], di farsi domande prima di farle agli altri, il coraggio di non avere paura a scrivere che “i miei polpastrelli cercano approvazione”.».
Come ti poni tu rispetto a queste due parole, sinestesia e coraggio, ora che l’opera è uscita e, in qualche modo, ha smesso di appartenerti del tutto?
“Io ho quel che ho donato”, diceva Gabriele D’Annunzio. Credo fortemente nel dono. #PoesiaEspressa di fatto è donare una poesia, è un darsi, fisicamente. Per estensione è darsi fisicamente al gioco della vita. Le parole di Cristina, che non smetterò mai di ringraziare abbastanza, colgono la mia personalissima disperata vitalità che avverto costantemente. La vita va masticata. La poesia di fatto è un prodotto della masticazione. E per masticare vita devi stare dove ci sia la vita. Con onestà prima di tutto verso te stesso. Senza la paura del consenso ma cercandolo con rispetto, interrogandosi quasi senza sosta perché il nostro corpo, sempre per tornare al tema-corpo, è una presenza della quale non ci libereremo mai. Occorre coraggio per interrogarsi, per guardarsi dentro con quella grazia con la quale Cristina mi ha insegnato a prendermi cura dell’anima. A capire cosa trattenervi dentro e cosa lasciare andare. Che non significa perdere. Significa anzi darvi vita.
Un’ultima domanda. Pensa che cretino che è l’amore, con i suoi testi, sembra fotogrammare gli istanti momento per momento, come se tu cercassi, attraverso il verso, di bloccare l’attimo, un po’ come accade al fotografo nel cosiddetto tempo di scatto.
Condividi questa mia analisi? La tua poesia tenta, come una fotografia, di eternizzare il qui e ora, di sottrarlo al passaggio del tempo?
Come sai la fotografia per me è molto più che una passioncella. Sono sempre io, sia che scatti sia che scriva. Entrai in contatto con il Sentimento del tempo di Ungaretti e con le teorie filosofiche di Henri Bergson circa nello stesso momento. Gli ultimi anni liceali. A questo aggiungi una delle mie prime esperienze con la poesia: il sonetto di Shakespeare, “Shall I compare thee”, che provai a declamare a una mia compagna di classe della quale ero infatuato. L’idea che comunque tutto sia estremamente provvisorio mi ha sempre spaventato. Poi col tempo ho imparato a leggervi una ricchezza in questa fragilità. Quando Shakespeare afferma che “morte non potrà vantarsi di averti nell’ombra sua”, mi sono interrogato sull’inevitabilità di questo aspetto. Che di fatto lo è. Aggiungo di più. Nella solennità della Santa Pasqua nelle Chiese viene recitata la sequenza delle Victimae Paschali laudes che afferma come “morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello”. L’arte, la poesia, la fotografia, non sono forse tutti tentativi di duellare con una fine che è inevitabile ma non per questo può imporci il vivere passivamente i giorni che ci siano concessi. Estendendo il concetto dall’amore alla vita, il mio verso “sai che roba nel frattempo” ricalca precisamente questa idea. Ecco, io credo che laicamente questa sia la funzione anche della poesia. Fermoimmaginare, passami il termine, la vita, entrando nelle sue viscere, senza timore ma pieni di quel coraggio che almeno per parte mia deriva dal bilanciamento tra passione e razionalità, per dirla con le magistrali parole di un intellettuale che amo, amore mutuato anch’esso da Pasolini, Antonio Gramsci, “con il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà”.
Si appoggiavano i tuoi seni qui sopra ieri
da dove ti scrivo
verso la finestra:
ho tradito le prime ore della rugiada
con pensieri impuri
per infittire i polsi di pulsazioni.
Mi ritrovo senza te:
lo specchio dell’armadio lamenta luce
e nessuna ombra più tra le mie braccia.
*
La panchina di Porta Romana
è greto
di un corpo
senza impulsi vitali
sotto una canicola che stritola:
private di fiato
le mani toccano ovunque
i comunque prima del sesso
di Marco che ancora la ricorda Anna,
e pure Lampadina se la ricorda la Luna
al semaforo sempreverde:
apprensione del gelo quasi zero
anzi sotto,
c’erano solo costellazioni per lenzuola
e qualche volta dio.
*
Assoli di cani e motori inerti.
Intere sono rimaste solo le ringhiere
e cantano all’unisono alle sei.
Non esistono più le mezze misure:
qui si dimezza anche la parola incivile.
I netturbini non sanno l’orario esatto
per affollarsi nel vuoto. Per affievolirsi.
I colpi di tosse sono accecanti.
Sono deflagrazioni. Tamburi di guerra inermi.
Urtano e distanziano. Anche chi si ama.
Si sopravvive parziali. Ci si desidera interi.
Bisogna stare male con osservanza, in disparte,
possibilmente muti, soli come carta da parati.
Questa sarebbe anche una notte di luna piena,
non fosse per queste continue ultime notizie.
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