Letteratura
Pavese: il mattino radioso della poesia
Tutta la vita di Cesare Pavese è stata dominata da un vizio coltivato fino alla fine: il “vizio assurdo” di suicidarsi, di togliersela. E così avvenne 71 anni fa, il 27 agosto del 1950, quando fu trovato morto nell’albergo “Roma” a Torino, per aver ingerito a dismisura bustine di sonniferi.
Pavese era un tenero malinconico, tuttavia la letteratura non gli ha dato la soluzione, la forza di reprimere una volontà distruttiva, di arginare i conati di un vizio orribile e pernicioso: quello del “cupio dissolvi”.
Questa frustrante ostinazione ha abitato la sua mente per tutta la vita.
Secondo Davide Lajolo, suo biografo, avrebbe inciso in modo dominante e pervasivo anche lo spettro della solitudine : “Pavese amava il lavoro e basta; aveva pochi amici, con i quali non trascorreva molto tempo e non era amato dalle donne, semmai tradito ed abbandonato“.
Da qui un ”Diario” tenuto per molti anni, il cui titolo dà la stura del suo tormentato contenuto: “il mestiere di vivere”.
Pavese esprimeva una tragedia interiore, che, incubata per anni, giunse irrimediabilmente al suicidio. Ma, prima di togliersi la vita, egli aveva compiuto il suo ciclo, il suo percorso con la letteratura e con il mestiere di scrivere. Dopo il romanzo “La Luna e i falò”, finì irriducibilmente la tensione a scrivere.
Ne “Il Mestiere di Vivere”, è chiara questa lucida consapevolezza. In verità, in lui è predominante il rapporto tra arte e vita. Se vivere diventa per lui un mestiere da apprendere con dolore e sgomento, l’arte diviene allora un sostituto di quell’esistenza, l’unico precario equilibrio da cui scaturisca lo scrivere.
Quando Pavese si accorge di aver completato il ciclo delle sue scritture e che non esiste altra possibilità di dare una valida giustificazione alla sua esistenza, affermerà: “Non ho più parole. Un gesto. Non scriverò più”.
Nella letteratura egli trova un senso compiuto, un mezzo per poter mettere ordine al groviglio dell’esistenza, di distillare dal fango della vita l’oro dell’arte.
“La difficoltà di commettere suicidio sta in questo: è un atto di ambizione, che si può commettere solo quando si sia superata ogni ambizione”
Il Mestiere di Vivere 16 Gennaio 1938
È la fine della fantasia, la caduta di ogni possibile equilibrio, perché neppure la scrittura funge da antidoto.
Come Majkovskij che scrisse “se muoio non incolpate nessuno e niente pettegolezzi”, allo stesso modo Cesare Pavese il 27 agosto 1950 scrive nella pagina bianca dell’opera cui ha tenuto di più questa frase:
“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Niente pettegolezzi.”
Ne “Il mestiere di vivere” ricorda che “verrà il giorno in cui avremo portato alla luce tutti il nostro mistero ed allora non sapremo più scrivere”.
Così lo ricorda Natalia Ginzburg: “Aveva modi ruvidi e si comportava come un ragazzo o come un forestiero… Negli ultimi anni un viso scavato, devastato, travagliato da pensieri, ma sempre con la gentilezza di un adolescente… E quella notte d’estate, non c’era nessuno di noi, in una stanza d’albergo nella città che gli apparteneva. Poserà un’ombra scarna sul volto supino, i ricordi suoi saranno dei grumi d’ombra come una vampa che ancora ieri mordeva negli occhi spenti”.
Ma la sua poesia lo rende eterno: un mattino radioso che scopre il fondo di tutte le cose.
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