Letteratura

Paura della libertà di Carlo Levi. Il libro del nostro presente

25 Giugno 2016

“L’uomo crede di volere la libertà. In realtà ne ha una grande paura, perché lo obbliga a prendere dele decisioni” Così Erich Fromm in Fuga dalla libertà .  E’ il 1941. Fromm è dall’altra parte dell’Atlantico e guarda il suo ex continente come un mondo alla deriva.

Più o meno nefli stessi mesi altri uomini si trovano a riflettere da quest’altra parte dellAtlantico e hanno la stessa immagine.Tra questi Carlo Levi. Paura della Libertà è il libro che dialoga a distanza con Fuga dalla libertà. Sarebbe un libro da avere in mano in questi giorni, ma in libreria non c’è.

Paura della libertà Carlo Levi lo scrive nell’inverno 1939-1940 in una stagione in cui l’Europa sembra vivere i suoi ultimi giorni. Lo scrive sulle rive dell’Atlantico francese, l’ultimo lembo di terra dove lui – antifascista, ebreo – capisce che si gioca un pezzo anche del suo futuro di uomo libero.

L’ho ripreso in mano nei giorni di Brexit perché in quelle pagine, credo, si parla molto di noi, soprattutto delle nostre paure e di quelle di coloro che con entusiasmo hanno vissuto il risultato emerso dalle urne.

Al centro di Paura della libertà sta la patologia del rapporto cittadino-Stato.

Nella descrizione del rapporto tra cittadino e Stato – tra potere e suddito – che Levi pone al centro di quelle sue pagine, si colloca la denunzia di un eccesso della politica proprio sulla base e in forza di una sua spoliazione, ovvero in relazione e in conseguenza di una depoliticizzazione dell’individuo.

Non è l’unico paradosso su cui Levi lavora, ma è uno dei tanti ossimori su cui non sarebbe inutile riflettere. È il filo tenue, ma tenace su cui si innesta la riflessione sul tema delle autonomie e dunque dell’idea e della convinzione che l’elettore prima di tuttio deve “fargliela pagare ai politici”.

Ma per certi aspetti è anche il filo che si consegna a noi, qui e ora.

La paura è un grande tema politico.

Siamo usciti dal XX secolo ritenendo che il racconto dell’orrore fosse il viatico migliore per costruire cittadini consapevoli, anzi per fare in modo che uomini e donne divenissero cittadini consapevoli. Dobbiamo constatare che ciò che muove la politica e i sentimenti collettivi non è la rivisitazione critica del passato perché si dia un diverso futuro, ma la paura.

È la paura, invece, questo grande tema barocco su cui si costruisce la dimensione della politica (che cos’è il Leviatano di Hobbes se non una riflessione sul potere che si legittima a partire dalla paura?).

La politica, dunque il potere e la sua amministrazione non è il tentativo di trovare la felicità, ma una tecnica di governo. La paura ne è l’ingrediente principale. Il potere  potere (o un contropotere – per ora) che fa della paura il proprio mantra politico,  mentre denuncia i mali della politica e tenta di accreditarsi attraverso l’offerta di protezione salvifica, riconferma il carattere alienante ed espropriatore della decisione politica.

La paura, prima ancora che una condizione, è un handicap. Lo stesso che impedisce all’uomo di campagna del racconto di Kafka di oltrepassare la porta della legge. È il timore reverenziale rispetto a un ordine a bloccarlo, anche se solo a lui sarebbe dato di accedere alla legge. Ma questa è la forza del potere: stabilire regole incomprensibili per poter esercitare il dominio, per verificare la propria potenza. Per poter infrangere questo sacro vincolo, sarebbe indispensabile riuscire a trasformare quella potenza in stupidità, in dimensione ottusa.

E’ quello che vorrebbe dire e comunicare chi sostiene Brexit, ed è significativo che anche gli antipolitici di casa nostra non si siano serviti del racconto di Kafka per dimostrare dove sta la soglia psicologica da superare.

Non lo faranno perché l’antropologia politica, la macchina politica che hanno interiorizzato è omologa a quella che dicono di contestare.

Festeggiano quel risultato come liberazione, ma come tutti i movimenti che non ammettono contraddizioni al proprio interno non prefigurano nessuna libertà  La filosofia politica su cui si sostengono è la definizione di una nuova casta di sacerdoti che prima di tutto chiedono fedeltà. Al solito l’atto di liberazione, presunta, non immette a nessuna libertà.

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