Costume
Pasolini, o dell’elogio della devianza sociale
Sono passati quarant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini. Riproponiamo così una parte dell’intervista, a cura di Vittorio Borelli, a Giulio Sapelli, professore di storia dell’economia , autore di Modernizzazione senza sviluppo – Il capitalismo secondo Pasolini.
Il libro, edito da Bruno Mondadori e a cura di Veronica Ronchi, è un’indagine sugli scritti politici e sociologici di Pasolini che hanno apportato un notevole contributo di comprensione alla “rivoluzione antropologica” italiana. Tutte le classi sociali, dal sottoproletariato alla borghesia, hanno subito negli anni sessanta un repentino cambiamento di “personalità” che ha inciso sull’emergere della società del consumo nel nostro paese. Dal distacco dalla civiltà contadina all’imposizione della lingua tecnologico-televisiva, alla rivoluzione studentesca del ’68: ecco i temi del Pasolini profeta che, a quarant’anni dalla morte, non smettono di far discutere.
Allora professore, che c’azzecca la storia dell’economia con Pasolini? Il suo libro è una raccolta di lezioni tenute ai suoi studenti alla Statale, ma la competenza e la passione… da dove vengono?
Da un amore antico per la letteratura. Da giovane sognavo di laurearmi in letteratura con Edoardo Sanguinetti a Torino. Un sogno irrealizzabile per uno che come me che, figlio di un tipografo, aveva fatto l’avviamento al lavoro e poi le scuole serali per prendere il diploma. Dopo la laurea in economia, avrei voluto prenderne una in filosofia, ma non era possibile perché avrei dovuto dare esami di latino che avevo studiato pochissimo, così mi feci aiutare da un vecchio sacerdote che era stato mio insegnante alle scuole serali e mi laureai da privatista in magistero. Nel frattempo vinsi anche un concorso del Comune di Torino con un’analisi strutturalista delle poesie di Pascoli.
[…] Pasolini non era uno dei miei autori preferiti. Ho amato di più l’ala della poesia ermetica non montaliana (da Eugenio Montale, ndr). E soprattutto ho avuto un amore travolgente per Andrea Zanzotto, che reputo il più grande poeta del Novecento italiano. Subito dopo metto Sanguinetti, con la sua passione viscerale per gli incroci fra politica e letteratura, la distruzione del linguaggio eccetera. Di Pasolini seguivo soprattutto le polemiche civili e politiche.
Quello delle Lettere luterane e degli Scritti corsari.
Quello che scriveva su Vie Nuove e Rinascita, prima ancora del Corriere della Sera. Poi ho amato il Pasolini della narrativa e della critica letteraria, quella poca che ha fatto; non a caso il grande critico Gianfranco Contini, a cui piacevano le sue prime poesie in “furlano”, lo ha poi seguito e aiutato soprattutto nella narrativa. Nel campo della poesia io ero per i Zanzotto e gli Ezra Pound, tutt’altro genere di poesia.
Il punto di congiunzione con le sue materie era l’Italia del Dopoguerra, della ricostruzione.
Sì, non ho mai creduto che si potesse capire l’economia senza capire la società. Io non ho un approccio marxista, ho un approccio weberiano (da Max Weber, ndr) e durkheimiano (da Emile Durkheim, ndr) per i quali l’economia si spiega più con la società di quanto l’economia non spieghi la società. C’è una circolarità, molto spesso è la cultura a fare l’economia. Qui viene il punto: Pasolini, che era a suo modo un grande reazionario, si ribellava a una modernizzazione che avanzava senza sviluppo, cioè senza una crescita civile e culturale della società. In questo mi ricorda Jean Jacques Russeau. Entrambi hanno un paradigma, che non è quello dello stato di natura, che per Pasolini poteva essere la civiltà contadina o la cultura popolare. Il paradigma è quello esposto da Russeau in risposta al Bando dell’Accademia di Digione, nel 1748, e cioè che le arti e le scienze non hanno contribuito affatto allo sviluppo dell’umanità, ma l’hanno semmai corrotta. […] per avere scienza e arte si deve passare attraverso un sistema di istituzioni fondate sulla disuguaglianza, sul lusso, sul disprezzo dell’uomo come essere da preservare.
[…] Nel modello pasoliniano si ritrovano gli archetipi della civiltà contadina e delle culture popolari distrutte; non a caso l’unica cultura che rimane intatta è quella napoletana, che crea una barriera verso la modernizzazione. Non cade nell’artificialità. Quello che spaventa Pasolini è la perdita dei rapporti face to face, la perdita di oralità. E qui viene il discorso sulla televisione. Nel libro ho cercato di spiegare che lui era stato mal capito sulla televisione: non era contro la televisione in sé, ma contro il totalitarismo tecnologico nei rapporti interumani che la televisione aiuta a inverare. Un totalitarismo che non lascia spazio al face to face, all’apprendimento della lingua. In questo sta, a mio parere, la straordinaria modernità del pensiero di Pasolini. E’ di questi temi che si discute oggi tra le persone colte. A me Pasolini piace perché ci aiuta a porci umilmente di fronte ai processi sociali, a vederli per quello che sono effettivamente, senza cadere nel pensiero unico.
Anche in questo stava il suo essere istintivamente di sinistra, il suo stare dalla parte degli umili, dei deboli.
Sono d’accordo. Infatti la sua sinistra è pre-marxista, lui era per un socialismo utopistico e benevolente. Non da libro cuore, perché in Pasolini c’è un misto di repulsione ma anche di attrazione per la malvagità dell’uomo, come si vede soprattutto nelle sue ultime opere, come Salò o le 120 giornate di Sodoma. Ma prima il suo era un comunismo per così dire umanista.
Un comunista umanista…. espulso dal Pci.
Pasolini era professore di scuola media ed era iscritto al Pci. A un certo punto viene condannato per omosessualità (naturalmente la condanna formale non era questa) e il partito lo espelle. I comunisti da salotto di oggi possono anche indignarsi, ma non sanno niente dell’Italia di quegli anni. Allora il punto di vista del Pci, era più che giustificato: il partito aveva bisogno di una sua legittimità e non era certo con queste battaglie che poteva ottenerla. L’espulsione dal partito è stata una ferita terribile per Pasolini. Il suo rapporto con il padre, probabilmente un fascista, era inesistente, così lui parte con la madre dal Friuli e si trasferisce a Roma. Qui continua a scrivere su giornali di area comunista, come Vie Nuove, a riprova che la personalità umana non è monolitica ma plurima e contraddittoria. Penso ai giovani, così spontaneamente manichei, e mi viene da dire che l’educazione alla tolleranza non è la reciprocità. Non sono gli altri a darti la libertà. Ogni società ha le sue regole e noi siamo persone complesse in cui il principio del bene e del male lottano strenuamente.
Nel libro lei spiega che uno dei cardini del pensiero pasoliniano sta nel fatto che il processo di industrializzazione della società italiana si è realizzato in un lasso di tempo molto breve, molto più breve di quello di Paesi come la Germania, la Francia e l’Inghilterra.
Sì e io sono molto d’accordo con lui su questo punto. Negli anni Ottanta ho scritto un libro a cui sono molto affezionato, L’Italia inafferrabile, uscito da Marsilio, nel quale sostenevo esattamente la tesi che quella italiana era una modernizzazione senza sviluppo, caratterizzata dall’incapacità di realizzare una integrazione sistemica e non soltanto sociale. Naturalmente c’è stata integrazione sociale, perché l’aumento del reddito e il consumismo hanno dato cittadinanza a quelli che non l’avevano, ma non c’è stata integrazione sistematica, fatta cioè attraverso istituzioni. Si pensi a come l’integrazione della classe operaia non sia avvenuta attraverso un nuovo sistema di relazioni industriali ma con la violenza: l’Autunno Caldo del 1969 è stata una “violenza barbarica”, soprattutto da parte degli operai meridionali, i più dequalificati, che si ribellano alla loro condizione spaccando tutto e a volte anche sparando. Aiutati in questo dai figli dei ricchi.
Pasolini, tuttavia, resta legato a un mondo precedente a quello operaio.
Il mondo operaio non gli interessa. Per lui gli operai non sono i deboli, sono quelli che sono stati inclusi. D’altronde, anche gli operai sono forti: esprimono movimenti, sindacati, partiti, idee. Il nostro welfare non è forse modellato sui lavoratori dipendenti occupati, di cui gli operai costituiscono una parte essenziale? Pasolini stava dalla parte degli esclusi, degli esclusi dalla cittadinanza consumistica. Spariti i contadini, restavano i sottoproletari.
Tornando al Pasolini comunista, quali erano i suoi rapporti con gli intellettuali dell’epoca?
Inesistenti. Lui fa una vita fuori dall’intelligentia, sia quella comunista sia quella azionista. E’ amico di Moravia, ha un eccellente rapporto con Contini, con Arcangeli e Longhi, ma non frequenta gli intellettuali comunisti, che erano in gran parte degli zdanovisti (da Andreij Zdanov, membro del politburo sovietico ai tempi di Stalin, ndr), quindi dei servi. Il rapporto con Moravia, così come con Enzo Siciliano è un rapporto personale, non ha niente di politico. Ha poi degli amici nel mondo universitario bolognese, i Roversi, gli Scalia eccetera. Ma tutti insieme questi rapporti non fanno lobby. Quello che mi piace di Pasolini è il suo stare fuori dal coro, il suo essere cane randagio. Lui era un qualunquista vero. Intendendo per qualunquista una espressione alta e nobile di autonomia dal denaro. Un modello che mi ha sempre ispirato.
Quanto pesava il fatto di essere omosessuale su questa sua estraneità dalla cultura ufficiale?
Non ho gli strumenti per fare un discorso approfondito su questo punto. Forse potrebbe farlo Pier Francesco Galli, l’ultimo grande psicanalista rimasto in Italia. Posso sbagliare, ma a me sembra che l’omosessualità l’abbia sempre liberato e riparato dalla modernizzazione bastarda. Lui doveva scaricare la sua energia sessuale in un mondo di diseredati. E questa è stata una grande forza intellettuale. La sua sessualità, per l’epoca, è stata una grande forza di contestazione.
Contestazione anche verso la Chiesa.
Questo è un aspetto che mi ha sempre appassionato molto perché, in fondo, io sono un eretico cattolico, un cattolico comunista non rodaniano (da…. Rodano, ndr), alla Felice Balbo. Insomma i comunisti cristiani del Nord. Pasolini si dichiarava ateo, ma il suo ateismo è tutto da spiegare e interpretare. Nella sua critica anti borghese – a questo proposito ricordo sempre un bellissimo libro di Emile Poulat, grande storico della chiesa francese, Eglise contre bourgeoisie, in cui si trova una visione della Chiesa come elemento di protesta contro l’assetto sociale – Pasolini vede nella Chiesa la conservatrice della tradizione, in senso positivo. E nello stesso tempo vede la Chiesa come protagonista di uno scacco contro la modernità. Tutti ricordano il bellissimo saggio su Papa Paolo VI che si mette le piume. È un saggio importante perché lì, in fondo, la Chiesa rinuncia alla sua identità e di ciò Papa Montini, uomo del dubbio, non è poi così convinto. Pasolini era più un lefevriano che montiniano.
(Per leggere l’intervista di Vittorio Borelli integralmente cliccare qui)
Un estratto dell’intervista a Giulio Sapelli per la mostra del Centro Culturale di Milano: “Pasolini, il poeta che sfidò il nulla”, Galleria Giovanni Bonelli, Via Porro Lambertenghi 6, Isola, Milano
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