Letteratura
Pasolini da non perdere. In margine al centenario, prossimo venturo
Provo a riflettere su Pasolini in occasione dell’approssimarsi, il prossimo 5 marzo, del centenario della nascita.
Che linguaggio culturale è quello di Pasolini? Ci è ancora utile? Penso di sì.
Provo a proporre tre chiavi diverse del laboratorio di Pier Paolo Pasolini che penso ci potrebbero essere ancora utili.
La prima chiave è tra metropoli e periferia. È un tema classico del rapporto colonizzazione/decolonizzazione ma non solo. È anche una proposta specifica che tende a non avere né uno sguardo macchiettistico né folclorico dell’Italia profonda e dell’Italia popolare.
A un primo livello dunque il tema è un’analisi antropologica dell’Italia e soprattutto degli strumenti a disposizione tra anni ’50 e anni ’60 per affrontare la questione delle culture e delle subculture in Italia.
Ma anche è il problema dei nessi e delle contraddizioni dell’Italia del sottosviluppo e dello sviluppo, no solo dei problemi economici, ma anche del disagio.
C’è un asse da confrontare tra l’Italia che emerge dalla produzione cinematografica e l’Italia come invece appare davanti al televisore in quegli stessi anni. Che sguardo è quello di Pasolini? Quanto c’è la città e quanto invece l’immagine, sulla città?
Forse la connessione tra lucciole e degrado non riguarda i mezzi di comunicazione, ma riguarda la mutazione linguistica che avviene nel corso degli anni ’60. In questa mutazione linguistica concorrono varie agenzie. Il problema è come queste agenzie lavorano e costruiscono un linguaggio pubblico.
Una seconda chiave è se e in che misura Pasolini abbia rappresentato una figura eccentrica nella storia della cultura del Novecento se rientri o non in una fisionomia del maledetto o dell’ uomo contro e se è comparabile con altre figure di irregolari o di “irriducibili” (Pound, Céline, ……) o se, invece, ci sia una funzione pubblica dell’intellettuale che egli riconosce come costante esercizio dell’interpretazione della realtà dei suoi piani diversi e infiniti e di quanto conti o pesi l’immagine barocca, contorta, del potere come raffigurazione. Un aspetto in cui conta non la macchina, ma la mentalità, le grammatiche, le tipologie, i comportamenti. In quest’ambito forse la figura con cui confrontarlo è Leonardo Sciascia, ma per certi aspetti anche Alberto Arbasino ma anche Luigi Meneghello, e molta letteratura sulla provincia italiana (compreso tutto il ciclo di Vigevano di Lucio Mastronardi) che tra anni ’50 e anni ’60 si misura con la trasformazione dell’Italia.
Che cosa si capisce da queste fonti, se rilette ora, a ciclo chiuso? Quanta Italia di oggi è leggibile in quei diversi testi; oppure quanta Italia inventata c’è in quei testi? E cosa è il ciclo delle scritture pubbliche, soprattutto che palcoscenico è quello dell’ultimo Pasolini?
E, infine, per lui chi è la figura dell’ordine? Cosa rappresenta la stagione dei movimenti come mentalità? Quanta innovazione e quanta consuetudine si produce in quella realtà? C’è una regolarità del modello italiano? E dunque quale attesa di futuro è possibile per Pasolini negli anni dei movimenti? Oppure: Che cosa è il fascismo nel dizionario culturale di Pasolini?
Una terza chiave è l’immagine della «fine del mondo».
Qual è il codice della «fine del mondo» da parte di chi la subisce? Quanta nostalgia, memoria, invenzione del passato, o reinvenzione del passato, creatività, sensibilità si mettono in moto di fronte alla «fine del mondo» e, fuori di metafora, alla fine del proprio mondo?
Che vita è quella dopo e che immaginario crea? Come lo si racconta e come lo ritrae? Com’è l’occhio, la parola, l’orecchio, il paesaggio di chi ha perso un mondo? Di chi ha visto qualcuno perdere il proprio mondo e di chi nel tempo è sopravvissuto?
Gli indiani d’America; gli aborigeni; gli ebrei d’Europa durante la seconda guerra mondiale e dopo; i tedeschi dell’Est Europa; gli ebrei provenienti dai paesi arabi e i palestinesi; gli armeni; quasi tutta l’Africa hanno avuto, ciascuno, la loro fine del mondo. A Alce Nero che parla della tragedia del suo popolo nessuno potrà mai obiettare che la sua è una visione apocalittica, o nessuno potrebbe mai dirgli che è un nostalgico del passato, o un reazionario romantico che disprezza il progresso.
Gran parte dello sguardo di Pasolini è la storia di una lunga riflessione sulla «fine del mondo», senza che prevalentemente ci sia un’immagine apocalittica. Un’attenzione che è visuale, filmica, ma anche verbale. Un’attitudine simile a quella dell’entomologo, che scava e che è volta a capire, sondare attraverso l’attenzione quasi ossessiva e spasmodica anche a particolari per molti marginali.
Dal vestito al gesto, dalla musica, alle parole, dalle movenze dei corpi, ai luoghi, dai linguaggi complessi alla grammatica della comunicazione di massa, Pasolini ha toccato tutti i tasti della estesa tastiera delle sensibilità culturali del Novecento, mettendo al centro ogni volta il tema del passaggio stretto e drammatico della fine del mondo a «dopo», alla condizione di tristezza, solitudine, silenzio, rabbia che accompagna il «giorno dopo». Dicendo di essere già nel «giorno dopo», ma allo stesso tempo consapevole che quel passaggio non era ancora compiuto, e dunque dove si davano tracce di incontaminato.
Non è la nostra condizione. Oggi l’incontaminato è tale solo a un costo irraggiungibile ai più. Fa parte del gadget d’offerta delle vacanze per pochi o della possibilità di gestire in totale autonomia il proprio tempo di vita.
È il lusso di stare fuori da questo tempo esprimendone allo steso tempo l’essenza. Per tutti gli altri, ovvero per la gran parte di noi, sta solo la impossibilità di uscire da questo tempo.
Anche per questo Pasolini esercita ancora un fascino. E sembra l’ultima incarnazione dell’antimoderatismo, della irriducibilità e perciò della libertà.
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