Letteratura
“Parole disarmate”: la parola tra potenza e fragilità
Parole disarmate (Edizioni del Rosone, Foggia) è un libro coraggioso, perché dice la verità sull’uso che noi facciamo delle parole. Gli autori, Andrea Prandin (consulente pedagogico e formatore) e Antonia Chiara Scardicchio (ricercatrice in Pedagogia sperimentale), spiegano che noi viviamo nell’illusione di scegliere le parole e, invece, sono le parole che scelgono noi: hanno un potere rivelativo e dicono molto sul nostro modo di essere, ci definiscono nel nostro rapporto con noi stessi, con il mondo, con gli altri. Sosteneva, infatti, Wittgenstein che le parole sono come la pellicola superficiale su un’acqua profonda.
La parola ha una natura duplice, è sempre in bilico tra potenza e impotenza. Da un lato è l’espressione della grandezza umana, è il λóγος che vince il caos, è la forza in cui si è riconosciuto il sistema di pensiero occidentale da Socrate a Hegel, è la quidditas che distingue l’uomo dall’animale.
Eppure questa forza può facilmente slittare nell’arroganza, quella di chi pretende, appunto, di avere sempre “l’ultima parola”. Le parole possono addirittura trasformarsi in vere e proprie armi che feriscono. E il modo in cui noi le usiamo è la spia che fa emergere le nostre intenzioni, il nostro volto più autentico.
D’altra parte, le parole possono esprimere anche la nostra fragilità: spesso ci mancano, vengono meno, non le troviamo. E non è per colpa di un lessico povero o di ignoranza, ma, piuttosto, della difficoltà di costringere entro gli angusti limiti del λóγος, il magma di emozioni che si agitano nel nostro cuore. Così sperimentiamo la debolezza del presunto potere definitorio della parola: un problema ben chiaro a Montale, quando scriveva non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco/ lo dichiari.
Dalla lettura di Parole disarmate si esce arricchiti di una consapevolezza nuova: le parole – scrive A.C. Scardicchio – sono povere e potenti, sono il confine sempre mobile tra potenza e percezione di incisione.
Riflettere sul valore della parola nel mondo contemporaneo è un atto quasi doveroso. In tempi di deliberata e strumentale manomissione delle parole – per usare un’espressione di G. Carofiglio, peraltro citato nella ricca bibliografia cui fanno riferimento gli autori di questo saggio – anzi, in un’epoca di vera e propria espulsione della parola, costretta a competere con forme di comunicazione digitale e di scambio virtuale, spesso affidato a emoticon e sms, risulta senza dubbio incisivo il monito di A. Prandin di restituire alla lingua il potere generativo dei significati e di sperimentare, così, logiche inesplorate, dando voce a ciò che è represso, inesprimibile o forse ancora sconosciuto. Si tratta di un inesauribile lavoro di ricerca che ha un intento pragmatico: aprire possibilità, innescare possibili fili di comunicazione. Le parole prive di ricerca sono parole sterili: inutili nelle relazioni, inutili nell’educazione, inutili nella cura. E il frutto della ricerca sono, per Prandin, i neologismi sincretici che per certi aspetti e in modo originale richiamano alla mente i binomi fantastici inventati da Gianni Rodari, parole liberate dagli schemi usuranti delle ordinarie catene verbali e accostate in modo surreale, giocoso e molto, davvero molto, rivelativo.
Parole disarmate lancia un messaggio di alto valore morale: organizzare la Resistenza della parola detta, pronunciata, “parlata”, accompagnata dalla fisicità di chi la usa: gesti, sguardi, voce, tono, corposità vissuta. La Resistenza della parola contro la non-parola del digitale.
Emerge, infine, da questo libro un preciso dato: la deriva della parola sta producendo rischi enormi, facilmente riconoscibili.
– La pretesa di dare alle parole il potere dell’esattezza oggettiva: oggi le parole vengono rese salde da test, griglie, misurazioni, quantofrenia. Si tratta di una patologia ben presente, per esempio, nel mondo della scuola. E, invece, deve essere chiaro che ingabbiare le parole è il primo passo verso la censura.
– L’ambiguità ideologica del linguaggio politico: orwellianamente vengono chiamate “missioni di pace” vere e proprie spedizioni di guerra o si definisce apoditticamente “Buona Scuola” una legge che, a ben guardare, è stata la causa del peggioramento repressivo di ogni libertà d’insegnamento e di qualsivoglia spirito critico negli apprendimenti.
– La paura della polisemia e della Babele linguistica, l’illusione della reductio ad unum dei significati come sinonimo di stabilità e di sicurezza. L’uomo – scrive A.C. Scardicchio – ha sempre cercato di estinguere la parte di sé umbratile. Il suo sforzo è sempre stato quello di aspirare alla costruzione di un discorso ordinato. E, invece, il più chiaro e ordinato dei discorsi, sebbene rassicurante, può diventare la più pericolosa delle illusioni. Pensare che dire equivalga a conoscere e parlare a sapere (…) impedisce al parlante di vedersi mentre parla, impedisce alle parole di farsi osservare per quello che sono: parole, solo parole.
Eppure noi viviamo di parole, con le parole, grazie alle parole e dal loro uso dipende la qualità della nostra vita associata: come chiarisce anche G. Zabrebelsky, il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia. Poche parole, poche idee, poche possibilità, poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quindi, più parole, più democrazia; più parole, più confronto; più parole, più umanità. Però a far da guida ai nostri discorsi deve essere – suggeriscono gli autori del saggio – la consapevolezza costante della potenza e della fragilità delle parole.
Proprio perché sopravvivano la democrazia, il confronto e l’umanità occorre, dunque, DISARMARE le parole. Trovare un equilibrio possibile tra potenza e fragilità è un’impresa nobile: “spuntare” le parole per disarmarle e renderle un fecondo terreno di incontro significa non “puntarle” mai come armi contro l’altro.
Loro, le parole, sono tutto quello che possiamo. E, contemporaneamente, tutto quello che non possiamo, nota A. C. Scardicchio. Sceglierle bene vuol dire impegnarsi a costruire un mondo migliore, intervallandole, semmai, talvolta, con opportuni silenzi, necessari a placare le emozioni negative e a lasciar emergere quelle positive. Lasciare che siano le parole a scegliere noi significa salvaguardare la profonda autenticità del nostro dire, la genuinità delle nostre emozioni, abbassare la soglia delle mediazioni.
Parole disarmate è un libro che insegna a liberare le parole dalle loro incrostazioni e pietrificazioni abitudinarie che si insinuano nelle mode linguistiche, negli stereotipi, nelle convenzioni.
Gli autori consigliano un lavoro di lento disapprendimento che consiste nello scardinare i presupposti delle nostre parole storiche per mutarle, per evitare il sempre-detto e il sempre-detto-così. Forse bisogna lasciar spazio alla fantasia, che, come ricordava Rodari, ha una sua grammatica, diversa, però, dagli schemi convenzionali: è libertà.
Imparare a disfare le parole, innescare processi di tras/de-formazione delle parole, giocare con i significati per scoprire nuove letture del mondo è un processo che comincia da bambini.
Può sembrare un esercizio difficile, invece è un’avventura in cui è in gioco il nostro modo di stare tra gli uomini e di coltivare la nostra umanità: dum inter homines sumus, colamus humanitatem (Seneca).
Cfr.:http://laprofonditadellecose.blogspot.it/2018/04/parole-disarmate.html
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