Letteratura
Parlare da soli
Sono sufficienti solo tre voci per parlare della morte, della sua consapevole o inconsapevole imminenza, degli adulti e dei bambini che vi si avvicinano? Probabilmente no, ma Neuman ci riesce ugualmente, dando corpo a tre voci che sembra di sentire e che non si incontrano mai.
C’è la voce di Mario, l’uomo che è in procinto di non esserci più. La sua voce è piena di spezzoni di ricordi, di eventi che non si ripeteranno più, alterna tenerezza a grettezza, tristi sorrisi a rimpianti per quelli che lui stesso definisce “attacchi di futuro”, che gli si presentano con dolcezza e violenza durante i giorni trascorsi con il figlio Lito nel viaggio in camion che i due intraprendono racchiudendovi dentro il congedo da una vita.
La voce di Lito è la più incontaminata, non solo perché è quella di un bambino ma in quanto voce di figlio che non sa quello che sta per accadere e che sarà più grande di lui, in realtà più grande degli adulti stessi. Vive con emozione e coraggio i giorni da solo con il padre, quella che gli resterà attaccata come enorme avventura dei suoi dieci anni: il viaggio tra uomini, molto più che il saluto leggero del suo compagno di viaggio.
“Tu eri ancora al dolce e si vedeva, Lito, che non ti andava di finirlo subito, né di andare a letto, proprio per niente, e mentre aspettavo il resto, mi sono messo a guardare gli uomini al bancone, alcuni erano giovanissimi, e tutt’a un tratto ho pensato che non ti avrei mai visto così, a quell’età, appoggiato a un bancone, e allora mi è venuta, come dire, una specie di attacco di futuro e ho pensato: bene, se non posso aspettare, allora che sia adesso e sono venuto da te per invitarti a bere qualcosa, ti giuro che ero pronto a lasciarti ordinare qualsiasi cosa, un whisky, una tequila, una vodka, qualsiasi cosa, e tu hai ordinato una Fanta, ed è stato meraviglioso, fare il viaggio, lo avevamo fatto proprio per questo no? Per farci una Fanta in un motel di puttane, e allora tutto è valso la pena”.
Infine, e soprattutto, c’è la voce di Elena, madre apprensiva, moglie sconfortata, semplicemente e più di tutto donna senza risposte.
Di fronte ai suoi monologhi, il viaggio dei due uomini sembra restare sullo sfondo per lasciare spazio a più lunghe riflessioni e a complicate domande che restano tali.
Elena rimane sola a casa, in città, con tutto il tempo che l’attesa della morte le concede per pensare, agire, semplicemente non fare niente, starsene in silenzio, a volte già rimpiangendo quello altrui, a volte riempiendolo con le parole dei libri che non aiutano.
Sono pagine da leggere e voci da provare ad ascoltare per esorcizzare il timore della morte, del suo preludio e delle sue conseguenze; per scoprirla accanto, troppo vicina, o dimenticata da qualche parte già dentro di sé; per confrontarsi con i sensi di colpa e la diversa tristezza di chi invece rimane.
Neuman sembra chiederci con quali atteggiamenti e con quante sfumature ci si può accostare alla fine, su quali temi è giusto soffermarsi, se riservare gli ultimi giorni e le penultime parole al ricordo, alla colpa, al desiderio, al rancore. Se è più difficile e incomprensibile dire addio o solo pensarlo, dedicare il tempo al pensiero, all’azione, all’altro, unicamente scomparire.
Nessuno pare saperlo. Quello che traspare in ogni pagina, per rimanere, è solo commozione.
“Ma la morte, secondo me, è piuttosto una perturbazione. Un continuo trasloco. Un ritorno a tutti i posti in cui l’assente aveva messo piede o non aveva ancora potuto farlo. Sento che non potrei andare alla morte di Mario, perché ci vivo dentro. Perché è sparpagliata dappertutto e da nessuna parte. Non sapremo mai dove va il nostro morto”.
“Parlare da soli” di Andrés Neuman (trad. Silvia Sichel) – ed. Ponte alle Grazie, 197 pagine
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