Letteratura

Paolo Nori parla di Paolo Onori, anche se poi non lo conosce

23 Gennaio 2018

Poco prima di Natale ho letto il libro Fare pochissimo, opera prima dello scrittore Paolo Onori. Visto che il libro mi è piaciuto ho pensato di provare a capire qualcosa di più di questo autore. Non lo faccio sempre, altrimenti avrei un sacco di tempo libero – a pensarci bene – o un mestiere che ha a che fare con lo scrivere di libri, cosa che invece non è, e non gestisco nemmeno una libreria.

Dopo aver cercato – a lungo e inutilmente – di contattare l’autore, ho deciso di provare a fare alcune domande su di lui e sulla sua opera a Paolo Nori, persona (credevo) a lui vicina e, almeno stando ai fitti richiami stilistici presenti nel romanzo, sua fonte d’ispirazione (ritenevo). L’intervista ha demolito le mie premesse, che erano poi le premesse dell’intervista, ma visto che era saltata fuori una conversazione interessante (e siamo già a due cose che mi sono piaciute in appena due paragrafi), ho pensato di condividerla comunque su queste pagine.

Partiamo dalla fine, visto che parlare di genesi di un romanzo sarebbe un buon inizio, ma cosa assai complicata: da dove sbuca questo Paolo Onori? Com’è arrivato alla pubblicazione del suo primo romanzo? E come mai lo ha dato alle stampe proprio ora? Immagino che questo suo primo romanzo non sia il suo primo tentativo in assoluto…

Quando ho saputo che c’era uno che si chiamava Paolo Onori che pubblicava un romanzo con Marcos y Marcos, ho diffuso, come si dice, questo comunicato:

È uscito questo romanzo di Paolo Onori, che si intitola Fare pochissimo, e questo Onori, in bandella, si presenta così: «Paolo Onori, nato a Parma nel 1963, abita a Casalecchio di Reno. Questo è il suo primo romanzo». Adesso io, che mi chiamo Paolo Nori, e che sono nato anch’io a Parma nel 1963, e che abito anch’io a Casalecchio di Reno, e che di romanzi ne ho scritti una trentina, o forse di più, devo dire che il romanzo di Onori per il momento non l’ho mica letto e che non so se lo leggerò. Mi hanno detto che è un libro più tradizionale, di quelli che scrivo io, con delle frasi più brevi, una sintassi più semplice, e mi hanno detto che lui, anche lui dice di non conoscermi e di non avermi mai letto e che, quando gli hanno fatto presente che abitiamo tutti e due a Casalecchio di Reno, mi hanno detto che lui ha risposto che Casalecchio di Reno è grande. Ha ragione. Anch’io lui non l’ho mai visto e magari non lo vedrò mai nella mia vita, e va benissimo così, ma c’è una cosa, che mi dà fastidio. Mi dà fastidio quel che mi han detto che lui abbia detto ai promotori quando ha presentato il suo libro, quel Fare pochissimo che non è un grande titolo, per un romanzo d’esordio, secondo me, ma va bene, non è che tutti possono esordire con dei romanzi con dei titoli bellissimi come Le cose non sono le cose, ma non è questo quel che volevo dire, quel che volevo dire è che lui, questo Onori, quando ha presentato il suo primo romanzo ha chiesto ai promotori di aiutarlo a diventare lo scrittore più venduto di Casalecchio di Reno. Che a me, quando me l’han detto, non mi è sembrata una cosa gentile, devo dire».

Adesso, è passato qualche mese, ho letto poi il romanzo di Paolo Onori e ne ho un’idea un po’ più precisa.

“Fare pochissimo” è un romanzo ibrido: non è un giallo, non è un romanzo biografico, non è un racconto di ambiente, né un’opera comica. Tragica nemmeno. I capitoli sono brevi e si susseguono senza perdersi di vista uno con l’altro, ma in potenziale autonomia. Secondo te perché Onori ha deciso di raccontare (e forse raccontarsi) attraverso una narrazione in cui “tutto si tiene”, ma che allo stesso tempo è composta di tante scene, ciascuna potenzialmente “autoportante”?

Non voglio parlare bene del romanzo di Onori, ma credo che il romanzo, per sua natura, sia un genere ibrido, dove quel che conta, il vero protagonista, è l’equilibrio tra le parti che lo compongono. Quanto al fatto di costruire un romanzo con una storia principale divisa in tante storie autoconcluse non mi sembra una gran novità, se non sbaglio l’ha fatto Mark Twain con Le avventure di Hucklebberry Finn (1884).

Il protagonista – Marco Pietramellara – per vivere fa il giornalista. La scrittura, anche se non in posizione di primadonna, è sempre presente nel corso del racconto. Insieme alle scene di vita quotidiana fa pensare a qualche punto di contatto fra la biografia dello scrittore e la finzione delle pagine. Che idea ti sei fatto del rapporto fra queste due realtà in Onori?

Non ho idea della vita privata di Onori; mi hanno detto che, alla prima presentazione, a Milano, gli hanno chiesto che mestiere fa, e che lui ha risposto che lui, sulla sua vita privata, preferisce non dire niente e in questo, devo confessare, lo capisco.

Immagino che, conoscendovi da tempo, abbiate in qualche occasione parlato di “metodo”. Ogni scrittore ha il suo modo di costruire un’opera, di dar corpo e voce ai personaggi, di ricreare gli ambienti. Come scrive Paolo Onori? Quali sono gli spazi o i momenti del giorno da cui trae maggiore ispirazione? Come procede nella stesura?

Non ci siamo capiti, io Paolo Onori non lo conosco, ma sono contento che non ci siamo capiti perché la tua domanda mi dà il modo di parlare di una cosa di cui parlo volentieri.

A Bologna stiamo facendo una rivista che si intitola Qualcosa e c’è un signore che si chiama Zanichelli Bruno che ha mandato questo contributo:

Mi chiamo Zanichelli Bruno, o Bruno Zanichelli, in tutti e due i modi, non ho mai pubblicato niente ma, da quando avevo otto anni (ne ho 55) avrei voluto scrivere un romanzo, e una trentina d’anni fa, quando facevo l’università, ho conosciuto uno, a Parma, che era il fondatore della corrente dei sapodisti, parola che viene da Sa podiss, che in dialetto parmigiano significa se potessi. Erano quelli che, non avevano tempo, ma se avessero avuto tempo avrebbero scritto delle cose bellissime. Ecco. All’epoca non avrei pensato ma devo dire che ormai sono quarant’anni che, tra una cosa e l’altra, sapodeggio anch’io.

Dopo questo contributo di Zanichelli, abbiamo chiesto ai partecipanti alle riunioni di Qualcosa di scrivere dei manifesti sapodisti e un signore che si chiama Diego Finelli ha mandato questo:

L’art Un racconto o un romanzo o una poesia sapodista o un qualsiasi testo sapodista, mi spingo a dire, una qualsiasi opera sapodista, devono lasciar intendere che uno poteva fare di meglio ma non è colpa sua, ha una bellissima idea, si tratta solo di metterla giù per bene con tutte le virgole al posto giusto e le descrizioni e i personaggi e lo svolgimento e poi il finale e è fatta, praticamente il grosso c’è; la letteratura (mi spingo a dire, l’arte) sapodista si deve intuire che ha delle grandi potenzialità, che però delle volte uno le deve costringere in tempi contronatura, come per esempio scrivere un romanzo dieci minuti al giorno dalle otto meno cinque alle otto e cinque tutte le mattine in ufficio prima di cominciare a lavorare: come vuoi che venga un romanzo così, viene per forza un romanzo sapodista il più delle volte, poi, un’opera sapodista deve essere incompiuta, lasciata lì in sospeso, e il suo stile, la sua forma devono assolut

Ecco, per rispondere alla tua domanda, non conosco Paolo Onori, ma credo sia possibile che scriva al mattino, dieci minuti al giorno, dalle otto meno cinque alle otto e cinque, forse.

In molti, all’uscita del libro, hanno parlato di evidenti prestiti stilistici da parte di Onori nei confronti della tua opera. Quanto Paolo Nori c’è in Onori e in cosa i due si differenziano?

Io non ho trovato somiglianze particolari.

Pensi che Onori possa avere un futuro come scrittore? Oppure questa sua opera resterà un unicum, come a volte accade agli esordienti?

Mi hanno detto che ha già in mente un seguito, che si dovrebbe chiamare Che dispiacere, se non ho capito male.

Se dovessi dare un consiglio a Paolo Onori…

No.

P. Onori, Fare pochissimo, Marcos y Marcos, 2017.

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