Letteratura
Paolo Di Paolo – Romanzo senza umani – Finalisti Premio Strega 2024
Paolo Di Paolo – Romanzo senza umani– Feltrinelli 2023 – Finalisti Strega 2024
Rispetto ai romanzi finora affrontati abbiamo qui una narrazione tradizionale, condotta in soggettiva anche se la voce che dice «io» è un alter ego, il ricercatore in storia Mauro Barbi, una voce che si espande in periodi lunghi, fluenti, non smozzicati o sincopati come quelli degli altri romanzi, e con personaggi credibili, ossia inseriti in un contesto storico-sociale facilmente riconoscibile. «Tradizionale», diciamo se oggi non suonassse come un insulto, mentre per un «ribelle in difesa della tradizione» (letteraria) in cui ci collochiamo sulla scia del critico americano Dwight Macdonald, è una specie di assenso preventivo se non una lode anticipata. Il testo non ha le sembianze della non amata autofiction, prodotto di stagione ormai inflazionato, anche se è noto e logico che buona parte della letteratura narrativa attinga direttamente o indirettamente a quel lurido pronome, secondo Gadda, che è l’io.
Iniziamo col dire che nel romanzo che abbiamo tra le mani il piano redazionale esibisce ben tre tempi narrativi. Il primo, che coincide con l’adesso, ovvero il soggiorno nel Lago di Costanza del nostro ricercatore stazionante in hotel-sanatori ai bordi del freddo lago nordico impegnato sul campo nella sua ricerca sulla glaciazione del 1573 (secondo momento), dove alcune persone e tranci di vita pregressa lo vengono a visitare nella memoria (terzo e predominante momento). Sono il professor Cardolini, l’ex fidanzata Anna che ancora è ufficialmente fidanzata a un altro, un’altra donna la «belga di Madrid», una Meri che vive a New York, Consuelo, una giovane donna ricca e psichicamente alterata che lo insegue per un incidente automobilistico a Roma, la sensuale Désirée Luconi e l’amante di lei Arnaldo Cicchede, e l’amico Fiore. Di tanto in tanto i ricordi si spingono indietro fino all’infanzia e alla confessione di un amour refoulé di mammà con conseguenti accenni di carenza affettiva.
Le pagine del primo momento, del soggiorno al lago, sono piuttosto tristanzuole e girano un po’ in tondo per le tante notti trascorse in preda a fantasmi del passato, fantasie sessuali, sesso solitario, incontri occasionali con italiani all’estero, a Bregenz in questo caso, che gli danno però ammaestramenti sulla vita, e sono piuttosto senza mordente, fino al punto di coinvolgere anche noi nella loro latente depressione. Nella scena dei «tutti nudi alle terme» si legge che il nostro impaccio di italiani a denudarci in pubblico deriverebbe dalla Controriforma, che «ci avrebbe rovinati». Interessante osservazione, anche se andrebbe discussa con l’annotazione di Nietzsche in «Umano troppo umano» secondo il quale a rovinare i tedeschi sarebbero stati invece Lutero e la Riforma.
Del secondo momento, ovvero della grande glaciazione del lago nell’inverno del 1573, scopo della ricerca sul genere delle Annales, e delle polemiche su Louis Agassiz (1807-1873) scopritore delle ere glaciali, valente ittiologo, teorico avverso all’evoluzionismo darwiniano nonché razzista, non diremo nulla per non rovinare il «piacere della scoperta» come direbbero gli Angela, tranne segnalare che la voce narrante con osservazioni sensate si oppone al movimento degli abbattitori delle statue. Nota al merito.
Le pagine del terzo momento sono certamente quelle che irrompono nella coscienza del ricercatore, e sono le più interessanti. Quelle che portano il vero romanzo, altrimenti avremmo avuto un saggio di glaciologia o una serie di informazioni turistiche sulle pizzerie delle tre sponde del lago, svizzere, tedesche e austriache. Sono le pagine, dicevamo, che rievocano la figura del prof Cardolini (notare le assonanze col prof Antolini del «Giovane Holden» colui che allena l’anima inquieta del giovane irrisolto). Sono ben condotte e forse instradano nel cuore del romanzo che sembra configurarsi sul genere Bildungsroman. Ma vedremo se è così. A noi non disturbano le pagine che non nascono dalla vita ma da altra letteratura. Amiamo così tanto la vecchia puta che ne vorremmo tanta, troppa. Se vi capita di leggere poi Jonathan Lethem, «L’estasi dell’influenza, nonfiction etc», scoprirete che il catalogo delle «influenze» è enorme, e che c’è un infinito campionario di prestiti, furti, calchi, parodie, scrittura «à la manière de», le «influenze» appunto. E poi in un’epoca come la nostra trionfante di letteratura (o meglio di scrittura) a tutti i livelli, la pretesa dell’originalità è inutile oltre che impossibile e diciamo che piuttosto dobbiamo adeguarci ai piani letterari di secondo e anche di terzo grado. Riscrivere l’Odissea come è stato già fatto. Nulla da eccepire dunque, tranne rimarcare che oltre che scrittori e narratori occorre sempre più essere letterati nel mondo di superfetazione letteraria in cui siamo immersi. Saper interloquire e governare la tradizione, aggiornare il canone, aggiungere una variazione. Eppure, eccola la variante, il nostro protagonista Mauro Barbi «ricercatore universitario di storia dottorando di ricerca sullo shock postraumatico della comunità umana alla prova del congelamento del Lago di Costanza 1572-1573» non è un young angry man della tradizione salingeriana del romanzo di formazione, tutt’altro, ha tratti beffardi, gaglioffi: masturba la propria ragazza mentre concorda il piano di ricerca col prof e durante le lunghe telefonate con lui, benché preso dal fuoco sacro della ricerca, non sta certo in rispettoso e rapito ascolto ma si lava i denti, rigoverna l’appartamento in cui vive, e in un passo più avanti di fronte alla rievocazione di “Cento anni di solitudine” è mosso giustamente dal desiderio di cosare la ragazza che ne ha intrapreso la lettura.
È una prosa ordinata, sennata, ma non ordinaria, con più di qualche increspatura espressiva, d’intonazione letteraria, d’aspirazione alla forma alta. Anche quando è insistita oltre la necessaria resa comunicativa o anche espressiva riesce a toccare terra un attimo prima della saturazione, e a suggerirci l’atmosfera e la conseguente percezione di ciò che, per esempio, in area filosofica tedesca (Kant) sarà chiamato il Sublime «Nell’abitacolo, un’imprevista luce fucsia contrasta con la musica nobile, solenne, che mi illude di mantenere qualche rapporto col Sublime», leggiamo.
E tuttavia ci si chiede: a quale domanda risponde questo romanzo? Sicuramente al tema della elaborazione di un io, della sua formazione, del suo irraggiamento nel mondo, della sua interrelazione con gli altri della reale presenza nei ricordi altrui, insomma risponde alla domanda alta « chi sono io»? Hai detto paglia…
Eppure sembra esibire un’ambizione ancora più alta: rispondere a tutte le domande, dai cambiamenti climatici alle conseguenze dell’amore, agli incontri occasionali che direzionano la nostra esistenza, alla nobiltà della ricerca intellettuale (c’è una bella pagina) e altro ancora. In tal senso alla fine del cap. 7 c’è una lunga e insistita serie di enumeraciones caóticas di quasi due pagine, stese e tese al fine di indicare atti, gesti e fatti – forniti ovviamente a spaglio- , in cui indulgono gli «umani», al fine forse di suggerire pensose verità sull’inanità della storia umana, che sembra così svolgersi per vuota addizione. Che è una degna acquisizione. Certo. Una philosophia perennis che ci invita alla meditazione e che dal punto di vista redazionale sembra raccogliere tutte le linee narrative del racconto. Ecco porzioni del brano altamente intonato.
«Piangono, di dolore o per il suo contrario, corrono spolmonandosi dopo avere rubato, o ucciso, scrutano il niente per ore accovacciati in uno spiazzo di polvere bruciata, raggiungono l’orgasmo gridando, sentono in una fitta alle tempie la lontananza da casa a metà di un viaggio, si baciano davanti a un altare, e tutto nello stesso attimo – adesso. o, raggiungono con il cuore in gola il luogo di un disastro, o la casa di un malato, camminano nervosamente nello spazio minimo di una cella di prigione, poi si lasciano cadere sfiniti su una branda, fanno prove di canto, pizzicano con sapienza antica le corde di uno strumento a un angolo di strada, ne portano alla bocca uno a fiato, fanno schioccare la lingua su un clitoride…».
La pagina, la scrittura, ha dunque l’ambizione di puntare al Top, dove più forte è però il rischio del Flop.
Segnaliamo per intanto il fastidio di alcuni capitoli (v. l’incipit del 5 e il 6) che si avviano con una lunga descrizione atmosferica e paesaggistica (il vento… i cumuli di neve… gli speroni traslucidi… lo schianto di una parete… il tuono spaventoso…) piuttosto che da un nodo narrativo lasciato nel capitolo precedente dà l’idea di un ricorrente «giorno della marmotta» narrativo, di un perenne inizio o di in blocco deliberato della consecutivitá narrativa, un’evanescenza deliberata, come se la narrazione non interessasse sostituita da una prosa evocativa, trasognata, vaporosa, suggestiva, o da discorsi al caminetto, riflessioni sulla civiltà, sull’attualità del cambiamento climatico, sulla diffusione della peste nella storia, divagazioni alate, eleganti e chic ove si perora il Bene e si depreca il Male, certamente, forse buone per un tema della maturità e che non sappiamo quanti lettori aggancerà. Noi s’è conclusa la lettura allo scopo di farne una recensione scrupolosa e attenta ma, ci si accorge, non avevamo altra ragione che questa.
Nella voce narrante ci è sembrato che i suoi angeli peggiori siano alla mercé dei suoi impulsi esistenzialistici. Spesso tutto il rimuginio di pensieri alti e di osservazioni, strizzate da un’intelligenza, che non sarà artificiale come annuncia il primo risguardo di copertina, ma spremuta da una ispirazione che ci è sembrata forzata, approdino in note dolenti e sconsolate di tipo para-adolescenziale. Una forma di tristitia post coitum della scrittura, con frasi come questa. «È inutile girarci intorno: ho fatto fatica. Non mi è mai venuto facile niente». O anche: «Che cosa ricordano, gli altri, di noi?» Bon Dieu de la France, qui non possiamo che ricordare un passo di Lethem che abbiamo appena finito di leggere e la cui lettura si è sovrapposta a questa. Che fa: «Quanto scrupolo possiamo mettere nell’annotare il nostro svanire, quanto ansiosi dovremmo essere di ricordare la dimenticanza e l’essere dimenticati? E così, per misericordia, non falliamo nel lavoro che ci viene assegnato, perché il nostro compito è duplice, siamo pennarelli e gomme per cancellare».
Oltre ai grandi pensieri divisati in molti ambiti della narrazione c’è anche l’insegnamento delle piccole cose della vita. Ci ha aiutati a cogliere, questa intenzione di scrittura, aver subito interiorizzato anche il profondissimo pensiero di Peter Handke posto in esergo al cap. 8 e che dunque fa parte integrante del testo, che recita solenne: «Non ignorare mai quel che un albero o uno specchio d’acqua hanno da dirti». No, in fede, non lo ignoreremo mai, noi lettori già instradati nel minimalismo zen dall’altro tedesco Wim Wenders: come potremmo disattendere quelle dolci, istruttive e saggi ingiunzioni del Komorebi la parolina che in giapponese significa «luce che filtra tra gli alberi». Non facciamo altro! E così anche l’ammaestramento di Handke, che in fondo guardando in casa sono le «Myricae» del Pascoli o le buone cose di pessimo gusto di Gozzano, che sono però tutt’altra roba.
«Di certo non è un saggio, c’entra il lago, sì, per forza, però è – come posso dire? – qualcosa di diverso. Un romanzo. Una specie di romanzo», così dice la voce narrante nel finale di autoanalisi sul proprio testo parlando in una telefonata col prof Cardolini.
A noi è sembrato una «specie di romanzo», cioè un romanzo a tecnica mista, certamente, che regge il passo tuttavia, e con qualche architettura e sforzo redazionale in più rispetto ai Finalisti Strega finora letti. Detto in altri termini non è il Top sperato ma neanche il Flop temuto.
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Finalisti Premio Strega 2024
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