Letteratura

Otto poesie di Silvina Ocampo

21 Settembre 2018

Otto poesie di Silvina Ocampo, notevole scrittrice argentina del secolo scorso, che occupa quasi tutto per intero. Moglie di Bioy Casares e amica di Borges, era, insieme alla sorella Victoria, fondatrice della rivista Sur, il centro intellettuale di una Buenos Aires in pieno fermento artistico, teatrale e letterario., oltre che musicale. Il testo spagnolo va pronunciato con la pronuncia argentina, e dunque s, c, z equiparate in un comune suono s, e y seguita da vocale e la doppia l (ll) seguita da vocale, pronunciate come la j francese di Jean o, meglio, inglese di James. Tale pronuncia è essenziale per la correttezza delle rime: caza e casa (caccia e casa), per esempio, fanno rima, che sarebbe impossibile con la pronuncia iberica. Bioy Casares racconta che quando annunciò a un amico che si sarebbe sposato (casar) questi disse: non sapevo che ti piace andare a caccia (cazar). Gli argentini, giustamente, ci tengono a difendere le caratteristiche della loro lingua e a distinguerla dallo spagnolo della Spagna. Come gli statunitensi, del resto, del loro inglese (american english) rispetto ai britannici. Silvina Ocampo, poi, adotta anche la coniugazione e i pronomi tipici dei parlanti argentini: seconda persona vos, invece di tu, vos sabés, tu sai, invece di tu sabes degli spagnoli. Diversi anche gli imperativi: llevame eso, in Spagna llévame eso. Portami quello. E’ diversa anche, come si è detto sopra, la pronuncia della ll: argentino jevàme (j di James), spagnolo gliévame (traslitterazione italiana).

Apparentemente, queste poesie sembrano molto classiche. L’influsso “modernista” si sente, però, nell’imprevedibilità degli accostamenti metaforici. Così come il distacco, si direbbe la freddezza, delle confessioni sentimentali. Abilissimo il dominio della prosodia e l’uso delle rime, e delle assonanze (più diffuse nella poesia di lingua spagnola che in italiano) spesso assimilate a una vera e propria rima. Del resto il romance in ottonari, fin dal Medioevo, si regge sulle assonanze dei versi pari. Ed è usato prevalentemente come verso del dialogo nel teatro. La varietà e libertà metrica e l’uso delle rime costituisce anzi un carattere distintivo del teatro spagnolo, rispetto alla scena inglese o francese, e rappresenta un aspetto non secondario del suo fascino e della sua musicalità. La vida es sueño (La vita è sogno) di Calderón de la Barca o El perro del hortelano (Il cane dell’ortolano) di Félix Lope de Vega y Carpio devono molto della loro straordinaria bellezza poetica e della loro efficacia teatrale proprio alla duttilissima, libera, meravigliosa varietà metrica e musicalità delle rime. Nella poesia di Silvina Ocampo questa tradizione costituisce una sorta di sottotesto. Nessuna citazione esplicita. Ma leggendo si è continuamente rinviati a versi famosi di una lunga e straordinaria tradizione poetica come quella spagnola. Per esempio, come non pensare a Teresa di Ávila, nel sonetto “Quiero morir si de mi vida no hallo” (voglio morire se della mia vita non trovo): “Vivo sin vivir en mí 
y tan alta vida espero, /que muero porque no muero” (vivo senza vivere in me e così alta vita spero, / che muoio perché non muoio). Ma i nomi che si potrebbero fare sono molti. Compresi, ai due estremi delle Americhe, il nicaraguense Rubén Darío, in qualche modo padre dei modernisti, e il cileno Pablo Neruda. Ma senza dimenticare gli spagnoli Antonio Machado e la densa, intensissima, esperienza umana e poetica di Pedro Salinas (“Hoy estoy besando un beso; / estoy solo con mis labios” – sto baciando un bacio: / sto solo con le mie labbra). Per non parlare di un’altra grande poetessa argentina, Alfonsina Storni, morta suicida nel 1938, a 46 anni, buttandosi e affogando nel mare di Mar del Plata, soggiorno estivo anche di Silvina Ocampo, nella sua Villa Silvina.

Perché ritorno a questi poeti? La poesia di ogni poeta è inimitabile. Tanto più se di epoche diverse. I petrarchisti non sono Petrarca. Ma qualcuno si avvicina alla sua grandezza. Almeno due: Giovanni della Casa e Shakespeare. A parte, a sé, Michelangelo e John Donne. Ma questi poeti americani e spagnoli ci dicono ancora oggi una cosa essenziale: che non c’è poesia senza musica. Alfonso Berardinelli scriveva qualche settimana fa, sul Sole24Ore, che certi poeti italiani di oggi gli fanno rimpiangere endecasillabi e rime. Be’, allora leggiamo questi endecasillabi di Silvina Ocampo, ascoltiamo queste sue rime. Chi sa che non si riesca e riscoprire una musica segreta anche della poesia italiana di oggi.

 

 

1. A veces te contemplo en una rama,
en una forma, a veces horrorosa,
en la noche, en el barro, en cualquier cosa,
mi corazón entero arde en tu llama.

Y sé que el cielo entre tus labios me ama,
que el aire forma tu perfil de diosa
de oro y de piedra, sola y orgullosa,
que nadie existirá si no te llama.

Entre tus manos quedaré indefensa,
no viviré si no es para buscarte
y cruzaré el dolor para adorarte,

pues siempre me darás tu recompensa,
que es mucho más de lo que te he pedido
y casi todo lo que habré querido.

2. Los delfines no juegan en las olas
como la gente cree.
Los delfines se duermen bajando hasta el fondo del mar.
¿Qué buscan? No sé.
Cuando tocan el fin del agua
despiertan bruscamente
y vuelen a subir porque el mar es muy profundo
y cuando suben ¿qué buscan? No sé.
Y ven el cielo y les vuelve a dar sueño
y vuelven a bajar dormidos,
y vuelven a tocar el fondo del mar
y se despiertan y vuelen a subir.
Así son nuestros sueños.

 

3. Nos iremos, me iré con los que aman,
dejaré mis jardines y mi perro
aunque parezcas dura como el hierro
cuando los vientos vagabundos braman.

Nos iremos, tu voz, tu amor me llaman:
dejaré el son plateado del cencerro
aunque llegue a las luces del desierto
por ti, porque tus frases me reclaman.

Buscaré el mar por ti, por tus hechizos,
me echaré bajo el ala de la vela,
después que el barco zarpe cuando vuela

la sombra del adiós. Como en los fríos
lloraré la cabeza entre tu mano
lo que me diste y me negaste en vano.

4. Qué ángel te librará de la tristeza
y te despertará un precioso día
sin memoria de lo que te afligía
y te dirá al oído: “Escucha y cesa

tus llantos. En mis brazos no te pesa
la lentitud del tiempo ni la impía
delación de los hombres. Eres mía,
ya no eres de este vano mundo presa.

Asómate a esta fúlgida ventana
por tu dicha adornada. Ya el dolor
se marchitó como una larga flor

cuya sabiduría al fin te sana
al disolverse porque se convierte
en polvo, en ilusión, en otra suerte”.

5. Quiero morir si de mi vida no hallo
la meta del misterio que me guía,
quiero morir, volverme ciega y fría
como la planta que fulmina el rayo.

Si lo que ansío decir es lo que callo,
y si he de aborrecer lo que quería
sin asco y sin vergüenza hasta este día,
si todo lo que intento es mero ensayo,

será porque he vivido de mentiras.
Por no morir quiero morir. El viento
que suena entre los muros con sus liras

o el hibisco bermejo, o el fragmento
de la luna, siempre algo, hasta mi queja,
me deslumbra y me deja más perpleja.

 

6. Quisiera ser tu predilecta almohada
donde de noche apoyas tus orejas
para ser tu secreto y ser las rejas
de tu sueño: dormida o desvelada

ser tu puerta, tu luz cuando te alejas,
alguien que no trató de ser amada.
Huir de la ansiedad que está en mis quejas,
poder a veces ser lo que soy, nada,

no tener nunca miedo de perderte
con variación y honda infidelidad,
jamás llegar por nada a concederte

la tediosa y vulgar fidelidad
de los abandonados que prefieren
morir por no sufrir, y que no mueren.

7. Si la verdad se vuelve una mentira,
si se vuelve dolor la dicha aviesa,
si se vuelve alegría la tristeza
con sus falsas promesas cuando expira,

si la virtud a la cual en vano aspira
mi vida frustra la habitual promesa,
si el corazón de odio o de amor me pesa
y al helarse cual mármol, aún suspira.

Si no pude enmendarme al recibir
la ingratitud de los que más he amado
ni pude ensombrecerme al eximir

de mi cariño a los que me han colmado,
será porque los dioses me han herido
del inocente horror de haber nacido.

8. Si soy en vano ahora lo que fui,
como la blanda y persistente arena
donde se borra el paso que la ordena,
no he sufrido bastante, amor, por ti.

Ah, si me hubieras dado sólo pena
y no la infiel intrépida alegría
tu crueldad no me lastimaría,
no podría apresarme tu cadena.

Quiero amarte y no amarte como te amo;
ser tan impersonal como las rosas;
como el árbol con ramas luminosas

no exigir nunca dichas que hoy reclamo;
alejarme, perderme, abandonarte,
con mi infidelidad recuperarte.

1. A volte ti contemplo in un ramo,

in una forma, a volte orribile,

nella notte, nel fango, in qualunque cosa,

intero il mio cuore arde nella tua fiamma.

E so che il cielo tra le tue labbra mi ama,

che l’aria forma il tuo profilo di dea,

di oro e di pietra, sola e orgogliosa,

che nessuno esisterà se non ti chiama.

Tra le tue mani resterò indifesa,

non vivrò se non è per cercarti

e incrocerò il dolore per adorarti,

perché sempre mi darai la tua ricompensa,

che è molto più di ciò che ti ho chiesto

e tutto quasi di ciò che avrò amato.

2. I delfini non giocano con le onde

come crede la gente.

I delfini dormono scendendo fino al fondo del mare.

Che cercano? Non lo so.

Quando toccano la fine dell’acqua

si svegliano bruscamente

e tornano a salire perché il mare è molto profondo

e quando salgono, che cercano? Non lo so.

E vedono il cielo e li ripiglia il sonno

e tornano a scendere addormentati,

e tornano a toccare il fondo del mare

e si svegliano e tornano a salire.

Così sono i nostri sogni.

3. Ce ne andremo, me ne andrò con quelli che amano,

lascerò i miei giardini e il mio cane

anche se sembrerai dura come il ferro

quando i venti vagabondi bramano.

Ce ne andremo, la tua voce, il tuo amore mi chiamano:

lascerò il suono piatto del campanaccio

anche se arrivo alle luci del deserto

per te, perché le tue frasi mi reclamano.

Cercherò il mare per te, per i tuoi sortilegi,

mi butterò sotto l’ala della vela,

dopo che il battello salpi quando vola

l’ombra dell’addio. Come quando fa freddo

piangerò la testa nella tua mano

ciò che mi desti e mi negasti invano.

4. Che angelo ti libererà dalla tristezza

e ti sveglierà un prezioso giorno

senza memoria di ciò che ti affliggeva

e ti dirà all’orecchio: “Ascolta e cessa

i tuoi pianti. Tra le mie braccia non ti pesa

la lentezza del tempo né l’empia

delazione degli uomini. Sei mia,

non sei più di questo vano mondo prigioniera.

Affàcciati a questa fulgida finestra

per la tua felicità adornata. Ormai il dolore

s’è marcito come un lungo fiore

la cui saggezza finalmente ti risana

al dissolversi perché si converte

in polvere, in illusione, in altra sorte.

5. Voglio morire se della mia vita non trovo

la meta del mistero che mi guida,

voglio morire, diventare cieca e fredda

come la pianta che brucia il fulmine.

Se ciò che anelo dire è ciò che taccio,

e se devo aborrire ciò che amavo

senza schifo e senza vergogna fino a questo giorno,

se tutto ciò che mi prefiggo è puro tentativo,

sarà perché sono vissuta di menzogne.

Per non morire voglio morire. Il vento

che suona tra i muri con le sue lire

e l’ibisco vermiglio, o il frammento

della luna, sempre qualcosa, perfino il mio lamento,

mi abbaglia e mi lascia più perplessa.

6. Vorrei essere il tuo prediletto cuscino

dove di notte appoggi le tue orecchie

per essere il tuo segreto ed essere le grate

del tuo sogno: addormentato o svegliata

essere la tua porta, la tua luce quando ti allontani,

qualcuna che non cercò di essere amata.

Fuggire dall’ansia che c’è nei miei lamenti,

potere a volte essere ciò che sono, niente,

non avere mai paura di perderti

con variazione e profonda infedeltà,

non arrivare mai per niente a concederti

la tediosa e volgare fedeltà

degli abbandonati che preferiscono

morire per non soffrire, e che non muoiono.

7. Se la verità diventa una menzogna,

se diventa dolore la felicità obliqua,

se diventa gioia la tristezza

con le sua false promesse quando spira,

se la virtù a cui invano aspira

la mia vita frustra l’abituale promessa,

se il cuore per odio o per amore mi pesa

e al gelarsi come marmo, ancora sospira.

Se non potei emendarmi ad incassare

ingratitudine da chi più ho amato

né potei rattristarmi all’esentare

del mio affetto chi me ne ha colmato,

sarà perché gli dei mi hanno ferita

con l’innocente orrore di essere nata.

Se sono invano adesso ciò che fui,

come la vana e persistente sabbia

dove si cancella il passo che la misura,

non ho sofferto abbastanza, amore, per te.

8. Ah, se mi avessi dato solo pena,

e non quell’infedele intrepida gioia

la tua crudeltà non mi farebbe male

né potrebbe catturarmi la tua catena.

Voglio amarti e non amarti come ti amo;

essere impersonale così come le rose;

come l’albero con rami luminosi

non esigere mai felicità che oggi reclamo:

allontanarmi, perdermi, abbandonarti,

con la mia infedeltà ricuperarti.

(Chi volesse approfondire la conoscenza di questa singolare figura della letteratura novecentesca, troverà molti stimoli nella lettura di un libro recentemente a lei dedicato: Mariana Enriquez, La hermana menor. Un restrato de Silvina Ocampo, Barcelona, Anagrama, “Biblioteca de la memoria”, 2018, pagg. 188. Non è stato ancora tradotto in italiano)

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