Letteratura
Ossi di parole
8 Gennaio 2024
Che cosa è poesia e che cosa non è poesia? Sembra che la domanda di Benedetto Croce ritorni oggi a riproporsi in maniera ancora più radicale. Ma non con lo stesso presupposto né con lo stesso fine. Croce cercava di distinguere all’interno di un testo poetico – ma anche di un romanzo di un dramma – ciò che a suo avviso fosse poesia da ciò che non lo è. Quindi partiva dall’analisi di un testo che già si proponeva come poetico. Cioè come poesia, e non solo come letteratura. Da qui molte sue incomprensioni: per esempio sulla funzione della struttura in un poema, in un romanzo, in un’opera teatrale. Il saggio su Dante ne è l’esempio estremo, il più radicale. Tutto l’opposto di ciò che di Dante pensa, per esempio, un Singleton o un Auerbach: che, cioè, anche i passi più evidentemente poetici – Francesca, Farinata, Ugolino – non si spiegano senza il supporto della struttura narrativa e teologica che li sorregge. Le edizioni delle Belles Lettres hanno appena pubblicato un commentario sull’elegia dell’umanista italiano Tarquinio Galluzzi, apparso nel 1621 con il titolo De elegia commentarius. L’analisi delle origini dell’elegia conduce l’umanista a porsi la domanda di che cosa sia, di che cosa si occupi l’elegia, se ha finito poi per imporsi come modello quasi unico di tutta la poesia, non solo latina, ma anche volgare, includendo infine anche Petrarca in questo filone della tradizione poetica europea. Ed è proprio in questi termini che anche oggi sembra riproporsi la questione. Come se la copiosa produzione di poesia satirica, comica, realistica, il successo di poemi come l’Orlando Innamorato, l’Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata fosse un trascurabile episodio collaterale. Bernard de Ventadorn l’avrebbe avuta vinta, insomma, su Chrestien de Troyes, la poesia amorosa provenzale sull’epica francese. Parallelamente uno storico della filosofia del calibro di Jürgen Habermas si chiede, all’età di 90 anni, nella sua ultima pubblicazione, Una storia della filosofia. Per una genealogia del pensiero postmetafisico (ed. italiana, Feltrinelli, 2022 – ed. tedesca, Auch eine Gescichte der Philosophie – ancora una storia della filosofia – Berlino, 2019), quale senso, e fondamento, possa porsi oggi, apparentemente concluse o finite o cancellate le ideologie (ma in realtà, invece, oggi più vive che mai, al punto di sostituirsi a qualsiasi metafisica), la filosofia. Se non altro la rinascita dei fondamentalismi religiosi dovrebbe porci qualche domanda. Sono lontani i tempi che un altro umanista, Martino Filetico, pubblica a metà del Quattrocento una traduzione in esametri latini di sette idilli di Teocrito, preannunciando, in qualche modo, l’Arcadia di Jacopo Sannazaro che dopo lunga elaborazione vedrà la luce nel 1509. L’elegia, l’idillio, si fanno modello, anzi l’idea, in senso neoplatonico, del concetto stesso di poesia, e idilli, in pieno Ottocento, chiamerà Leopardi alcuni dei suoi canti. Dunque ha ragione Giorgio Linguaglossa quando afferma che oggi. in un’epoca in cui le parole non hanno più o non hanno ancora un significato definito, ridotte come sono a scarti, accumuli di significati consumati dall’abuso, l’epopea dell’elegia è compiuta. Come uscirne? Accogliere lo scarto, utilizzarlo per altro da ciò che sembra destinato a significare? È, ma solo in parte, la poetica della kitchen poetry. Evitare, scansare l’equivoco del significato logorato dall’uso con un uso deviato, che distorca la percezione immediata consueta? Può darsi. Ma ci sono, chi sa, anche altre vie. Non certo quello dello sfogatoio intimo o ideologico al quale sembra ridursi la maggior parte delle pubblicazioni italiane che si vantano come poesia. Ma anche sull’autobiografia bisognerà intendersi. Non è in sé né un male né un bene, ma solo una materia. In fondo la letteratura italiana comincia con un libro – per altro sublime! – ch’è pura autofiction: la Vita Nuova. Dove, però, e non è segno da poco, la poesia già si accoppia con la riflessione sulla poesia, si fa anzi, perfino metapoesia: un capolavoro già quasi postmoderno, in tal senso, è il capitolo XIX, in cui si racconta come nasca l’idea di una poesia, come si sviluppi, e la poesia stessa, una canzone di soli endecasillabi, si fa spiegazione della propria intenzione poetica e dunque della propria forma. Pertanto scrivere di sé non è né un vizio né un vanto. Bisognerà vedere come se ne scrive e a che scopo. C’è poi – e anche qui una lunga tradizione ce ne incoraggia, penso al Parigi Sbastigliato di Vittorio Alfieri, per esempio, dove la novità della lingua è anche novità d’impostazione poetica, o se veniamo al novecento, alle Ceneri di Gramsci di Pasolini – chi assume la storia per esperienza personale sulla quale riflettere, non già pura vicenda politica, ma vicenda che coinvolge anche l’esistenziale del poeta e dunque, proprio per questo, ancora più profondamente politica. Insomma, il punto, credo, stia nel fuggire l’equivoco dell’immediatezza, della sincerità con cui la vita parla della vita. Quale sincerità in un’epoca in cui la lingua stessa non è più sincera o, meglio, non dice più ciò che apparentemente dice? Qui nessuno conosce la strada da intraprendere. Salvo che bisogna prenderla, e il rischio è proprio prenderla, e magari fracassarcisi la testa, fallire. Ma senza affrontare il rischio non si va da nessuna parte. Compreso il rischio di riassumersi, intera, la tradizione ingolfatasi nell’ormai “insignificante” condizione del linguaggio, per restituire un significato al significante, magari buttando sulla pagina lacerti di parole che non sono l’esperienza vissuta, ma i lacerti dell’esperienza vissuta, i frammenti, le scorie, i rimasugli, quello che resta di dicibile di tutto l’indicibile che si è condannati a vivere. La dannazione del poeta, oggi, non è l’espresso, ma l’inespresso. Non si pecca per dire troppo, si pecca già per il solo atto di dire. E se poi ciò che davvero possiamo esprimere si nasconda non in sublimi immagini, in metafore vertiginose – alla lettera: che fanno venire le vertigini – ma nelle parole di tutti i giorni, nello scarto della parole che dicono gli scarti che ci riempiono la giornata, fosse anche il dolore più terribile, la morte di chi si ama, ma che ci casca addosso inesplicata, inespressa, solo accaduta, allo stesso modo che cade una frana, che si spoglia di foglie un albero? Come esprimere il solo accadere, l’accadere che non ha parole?
Massimo Ridolfi ci prova. Colgo qualche verso qua e là, dalle sue raccolte. Non è, questa, una recensione, ma una riflessione su che cosa sia, oggi, scrivere poesia. E se poesia sia anche lo scarto che esplode, l’usuale che si manifesta inusuale. Se dico pane, non è solo il pane che compro dal fornaio, o quello che mangio, ma anche quello che molti, troppi non mangiano, non hanno. E allora io dico che il pane c’è per qualcuno e per qualcun altro no. O meglio ancora che il pane non è mai quello che sembra, o non lo è per tutti. E così via.
“meno per tutti e il tanto per i pochi”
(Mediterraneo, 2019, Gli ultimi Americani, 4)
Oppure, l’orrore delle guerre. Adesso due alle nostre porte ci spaventano perché avvengono alle nostre porte. Ma nel mondo, adesso, ci sono almeno trenta guerre. In Africa, in America del sud, in Asia.
Homo sapiens
sappiamo fare scoppiare le guerre
le centrali nucleari
sappiamo fare i funerali
a volte ci riescono bene anche i cimiteri
dove
in estate è sempre più fresco che altrove
sarà che lì
non batte più il cuore.
(Mediterraneo)
E poi l’io, questo io vorace, che vorrebbe dominare il mondo, che sembra il tiranno di noi stessi, il dominatore della vita, che s’immagina senza confini, ma che alla fine non è capace d’ignorare che non si è tanto diversi dagli altri, l’io trova la lingua per dire la banalità della vita di ogni giorno senza essere banale. E qui sta il punto: che la banalità del quotidiano finisce di essere banale nel momento in cui trova la lingua per essere detta. E questa lingua è sì la lingua di tutti giorni, ma filtrata attraverso il filtro che depura le parole di ciò che hanno appunto di banale, di quotidiano, per dirozzarle, lavorarle come si lavora il diamante grezzo, per farne una pietra preziosa, ch’è la pietra della poesia, la parole insostituibile, che dice la cosa come con altre parole non può essere detta.
Quotidiano
mi depilavo, sì
ho fatto pure questo
andava di moda
la moda, sì
ho seguito anche
i primi quindici giorni della prima parte
del grande fratello
ti ricordi
quando taricone
buon’anima
si imboscò con quella sotto quella tenda
fatta di tavoli e coperte
poi mi sono annoiato
(Mediterraneo)
Ma la raccolta alla quale Ridolfi tiene di più è un’altra: Padre Nostro, del 2020, pubblicata, come tutti gli altri libri di Ridolfi, da Lettrature Indipendenti. In questa raccolta l’adesione al cristianesimo, anzi al cattolicesimo, è esplicita perfino nel titolo. Ma è una religione com’è la religione degli eretici, dei catari, di coloro che aspirano alla purezza originaria della fede, non in un’istituzione, nella Chiesa, che ai suoi tempi ha tradito l’origine, ma in Cristo, il Dio che si è fatto uomo. L’esergo è quasi pasoliniano: “in questo libro c’è tutta la mia vita / e tutta la mia morte, / e in queste pagine sono risorto”. Ma lo si potrebbe leggere anche in chiave più laica, alla Goethe, che la parola scritta guarisce dalla malattia che racconta. E non è detto che questa malattia sia solo nella propria vita, può essere anche il luogo in cui si vive, il proprio paese, la politica del proprio paese.
io sono solo nel mondo
voi siete la mia solitudine
(pag. 19)
questo che la
società / contemporanea sta
vivendo / non è altro che / un nuovo
fascismo
(pag. 24)
La brutalità antimetaforica dell’affermazione apodittica è a suo modo essa stessa una metafora, nella quale è espressa la brutalità, che non si può pronunciare diversamente, del fascismo, del ritorno del fascismo. Il fascismo non ha metafore: è sempre e solo sé stesso: fascismo. Anche quando si maschera d’altro. Anzi, soprattutto quando si maschera d’altro. E allora va chiamato con il suo nome, va sbugiardato, va mostrata la sua nudità, come quella del Re di Andersen, che è sì una fiaba, ma la sola fiaba che può dire la verità: che, appunto, il re è nudo.
la verità
è una cosa
piccola / una struttura semplice
che si tiene da sé
Come la banalità non può essere detta che da una lingua banale, ma che nel momento in cui dice la cosa banale cessa di essere banale, così il dolore non ha bisogno di enfasi, di interiezioni, basta la cronaca dell’inevitabile:
io so che mi mancherai
anche così
che non vedi e non senti
quanto io t’Amo,
o, in qualche modo, rispondi:
“Va bene …”
(Prima lettera a mia madre)
La malattia e la morte della madre è dolore insuperato, insuperabile e dunque indicibile, come è indicibile qualunque separazione da chi si ama. Ma l’obbligo della poesia è invece di dirla questa indicibilità del dolore. E come dirlo se non semplicemente raccogliendo i resti di ciò ch’era la vita e che non è più, i cocci delle fratture via via vissute, in cui anche il più semplice dei gesti quotidiani acquista nel ricordo la vertigine insopportabile ma insopprimibile del contatto impossibile, che si desidera ancora.
tra poco vedrai dove ti ha portato
il tuo camminare a piedi nudi nelle chiese, strusciando i calli sui consumati pavimenti
e se potrà continuare scalzo il tuo cammino
o dovrai voltarti a cercare le tue scarpe, rimaste indietro, inutili.
(Decima lettera a mia madre)
Non sempre l’espressione linguistica raggiunge questa scarna evidenza, talora il pensiero sembra soffocare la lingua, insistere e ripetersi per dimostrarsi più chiaro, e tal altra l’emozione scavalca la parola, la sommerge (e non potete immaginare il soffocamento / che mi ha provocato ogni singolo verso – Clausula), ma da ogni pagina appare chiaro il metodo, il programma, se di metodo e di programma si possa parlare scrivendo di poesia: ed è di ridurre all’osso la parola, spolparla di ogni enfasi, denudarla perché dica solo ciò che il poeta vuole farle dire, e non altro; non invochi metafore, immagini che possano deviare dal percorso stretto, inabitabile dell’unica parola che possa dire ciò che deve dire, magari anche a costo di sembrare o addirittura risultare impoetica. Ma se il poetico è la finzione che si contrabbanda per poesia, allora l’impoetico è la verità che non si nasconde e che in fondo rivela la propria essenza: che solo la poesia è verità o, meglio, che solo la poesia sa dire la verità. Che non è la cronaca dei sentimenti o la parata delle idee, ma il nocciolo dell’essere qui, e adesso, e non poter essere altro, in altro tempo. Quasi come una metafisica del nulla. Del resto per i grandi mistici è proprio il nulla che noi chiamiamo Dio. Dio ci si rivela non per ciò che è ma per ciò che non è. “In una notte oscura” scrive San Giovanni della Croce. “Cerchiamo Dio tra le tenebre” dice Sant’Agostino. Ridolfi ha un’esperienza lancinante di questo nulla. Non sa, forse, nemmeno se sia Dio. Ma cerca di dargli un senso, l’unico senso che un uomo sappia dare al nulla della vita, al nulla delle cose: dirlo. La poesia, infatti è questo: dare senso al non senso della vita. Il sasso è un sasso, il fiume un fiume. Gli altri sono gli altri. E io, per gli altri un altro. A unirci, a comunicare non ho che la parola. Ma guai a tradirla, guai a modificarla, costringerla a dire ciò che non sa, non vuole dire. Tutta la poesia, la grande poesia non è che l’eroico sforzo dell’uomo per dare un senso all’incomprensibile, all’indicibile, una forma all’informe, un suono al silenzio. Ed è nel flusso di questo gigantesco, impotente sforzo di dare senso all’insensato, che tenta d’inserirsi, con la più adeguata innocenza possibile, anche Massimo Ridolfi. Spesso ci riesce. E noi, allora, lo amiamo per questo suo denudarsi.
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