Letteratura
Ode a Internet – Sul lavoro intellettuale di Walter Benjamin
Siete nati alla fine dell’800, siete tedeschi innamorati della cultura francese. Volete fare una ricerca sulla Parigi capitale del XX secolo e vi chiamate Walter Benjamin. Non avete altra scelta: chiudervi per anni alla Bibliothèque Nationale de France e spaccarvi la schiena sui libri e sulle stampe. Ne uscirete con un brogliaccio (manoscritto ovviamente) composto dai brani ricopiati dai libri che avete consultato e da vostre glosse a margine. Ne verrà fuori un pila di migliaia di fogli perché la vostra intenzione è quella di « combinare materiale e teoria, citazione e interpretazione in una costellazione nuova rispetto a qualsiasi forma corrente di rappresentazione e nella quale tutto il peso doveva posare sul materiale e le citazioni, mentre teoria e interpretazione dovevano asceticamente defilarsi». (Dall’Introduzione de I Passages di Parigi di Rolf Tiedemann).
Il grande Benjamin non riuscì a completare il suo lavoro sulla Parigi capitale del XX secolo, che è stato pubblicato, così com’è – un enorme blocco grezzo di citazioni di brani presi dai libri, di note e di appunti – solo qualche decennio fa da Einaudi. Nel 2012 l’editore Neri Pozza pubblica Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato. Questo libro, diceva la nota di accompagnamento del lancio, presenta in prima edizione mondiale la ricostruzione – resa possibile dai manoscritti benjaminiani ritrovati da Giorgio Agamben nel 1981 nella Biblioteca nazionale di Parigi – del libro su Baudelaire cui Benjamin aveva lavorato negli ultimi due anni della sua vita, quando interrompendo la stesura dei Passages di Parigi, decide di trasformare in un’opera autonoma quello che all’inizio si presentava come un capitolo del libro.
Per intanto voglio dirvi che anche a me – si parva licet – è capitato di occuparmi dello stesso periodo che interessava a Benjamin: Parigi anni ’40 dell’800, con un intento alla mia portata intellettuale: ricostruire la liaison tra Gustave Flaubert e Louise Colet, la sua amante parigina cui l’immenso autore di Madame Bovary dedicò delle indimenticabili lettere.
Mi perdonerete se vi anticipo, per una ragione che capirete ben presto, un brano di un mio lavoro lasciato alla “critica roditrice dei topi ”qualche decennio fa. (A proposito di questa espressione, il suo autore, Marx, era proprio a Parigi e scriveva l’Ideologia tedesca, proprio nell’anno in cui Flaubert fornicava di brutto con la Louise ed Engels ci dava dentro con le operaie, chiamate grisettes o lorettes )
Parigi negli anni ‘40 del XIX secolo non è ancora la sfavillante ville lumière della leggenda. L’illuminazione pubblica si avvale già di circa 8000 punti luce a gas, i celebri becs de gaz: non solo i noti lampioni della tradizione iconografica, ma soprattutto lanterne appese a dei bracci metallici in alto all’angolo delle vie. Il gas però non ha del tutto sostituito le lampade a olio installate dalla fine del ‘700 e l’illuminazione elettrica delle strade è di là da venire: solo nel 1878 entrerà in esercizio il primo impianto di illuminazione pubblica permanente nell’Avenue de l’Opéra. Ma proprio l’anno in cui inizia la nostra storia, il 1846, si tenta il primo esperimento, in Place de la Concorde, di illuminazione ad arco elettrico tra due elettrodi, subito abbandonato in quanto efficace solo per ampi spazi urbani.
Le vie non sono asfaltate e sono percorse da carrozze pubbliche, perlopiù fiacre, e se private, da tilbury e calessini vari come ad esempio il mylord «una di quelle vetture messe in circolazione sulle piazze di Parigi» che appare « a metà del luglio 1838» nelle prime tre righe de La cugina Bette di Balzac, un carrozza a quattro ruote con avanti un sedile sopraelevato per il cocchiere e dietro un altro a due piazze protetto da una capote che si poteva alzare o abbassare ma dove in una giornata di pioggia o di neve come quella del 10 febbraio 1843 Flaubert testimonia « ci si bagna tutto il corpo o almeno tutti i piedi» (p.143, vol I, della Correspondance a cura di J.Bruneau). Il fango invade le carreggiate nei giorni metereologicamente avversi, ma la gente va su comodi marciapiedi asfaltati (p.106) senza infangarsi eccessivamente le calzature coperte dalle ghette.
Il carosello delle carrozze è di prammatica specie nei giorni festivi alle Tuileries o al Bois de Boulogne, e chiunque sfogli l’Educazione sentimentale, il cui racconto inizia giusto nel 1840, potrà assaporare l’atmosfera di alcune scene della vita sociale a bordo delle carrozze. Le donne indossano le crinoline – delle sottovesti sostenute da uno steccato di crine, in seguito di ossi di balena, che si diparte a campana dalla vita racchiusa in un busto inflessibilmente allacciato sulla schiena-, indumenti che consentono loro di sentirsi “nude nei vestiti”. I maschi borghesi vanno in giro di giorno in abiti di tweed o sergé (saia) di lana ritorta con motivi a quadri a colori, e con tessuti a tinta unita in nero di cachemire o merino, di sera; non si sono affermate le rigide uniformi delle redingote nere e copricapo a cilindro degli anni ’70, ma già ora quasi tutti gli uomini ostentano barbe e baffi. La giovinezza, come periodo esimente dalle responsabilità della vita adulta in cui il “giovane deve fare il giovane”, non è stata ancora “socialmente” inventata, quindi non è tollerato essere giovani o giovanili, e ogni maschio di allora all’apparire della prima peluria ne asseconda la crescita con l’obiettivo di sembrare adulto prima del tempo. Solo un dandy come Baudelaire (nella foto), che disprezza i codici sociali, si presenterà in pubblico coi capelli corti e col viso rigorosamente glabro, e questo ce lo fa apparire, nelle belle fotografie che di lui si conservano, molto “moderno” se raffrontato a tutti i suoi coetanei orrendamente baffuti e barbuti e dalle criniere spesso incolte.
La vita notturna si svolge alla luce dei lampioni a gas attorno ai grandi teatri o ai primi boulevards non ancora ampi come quelli che attendono la mano del barone Haussmann per essere tracciati, sconvolgendola con i boulevards ( en bouleversant , en “boulevardissant”) e nei passages che attireranno l’attenzione di Walter Benjamin, sorta di gallerie con la volta ricoperta da vetrate, illuminate dal gas, che coprono una o più vie: celebre il passage du Panorama o du Caire…
Orbene, tutte le informazioni relative all’illuminazione, ai marciapiedi, alle vetture, agli indumenti delle donne, ai Passages stessi ecc. le ho rintracciate su Internet con un clic, elaborando informazioni doviziosissime e attingendo a illustrazioni deliziose (dovreste vedere quelle sulle crinoline: digitando “Crinolines à Paris 1840″, avrete questo ). Mentre quel gioco di parole tra boulevards e sconvolgimento le ho prese dalle Mémoires du Baron Haussmann, grazie a un appunto paziente di Walter Benjamin.
Adesso vediamo come certamente lavorava Walter Benjamin.
Nel seguire, anzi inseguire, il suo poeta per le vie di Parigi, Benjamin non tralascia nessun elemento della vita collettiva in quella città, la “Babylone moderne”, che a lui pareva l’epicentro dell’Occidente, cioè quel luogo da cui si irraggerà la forma moderna del vivere, che è la nostra. Benjamin vuole ricostruire una sorta di “fantasmagoria dialettica” della città di Parigi attraverso gli occhi e l’opera del poeta dei Fiori del male. Dunque nessun aspetto della vita parigina doveva sfuggirgli.
I Poeti frequentavano i café ed ecco brani interi prelevati da Histoire des Cafès de Paris. Questi Passages non sono che vicoli ricoperti da vetrate su cui si affacciano i café, i teatri, i negozi (non sono ancora nati i grandi magazzini ovviamente). I negozi espongono merci locali e merci importate, soprattutto i prodotti coloniali della prima globalizzazione, e dunque brani tratti dal Vieux Paris di Paul Léautaud, dal Diable à Paris di Victor Méry (anche per avere informazioni sul clima) mentre per ragguagli sulle avventure dell’olfatto ecco Les odeurs de Paris di Louis Veuillot . E per le informazioni generali Benjamin si avvale dei sei volumi di Maxime du Camp, l’amico di Flaubert, Paris. Ses organes, ses fonctions et sa vie dans la seconde moitié du XIXe siècle che ovviamente paragona la città a un organismo vivente. E di centinaia di volumi dello stesso spessore.
Ancora. Cosa leggeva Baudelaire? Ecco è necessaria una ricerca minuziosa sui giornali e sulle riviste satiriche, sul “Charivari” sulla “Revue de deux mondes”, ecc . Prendeva l’omnibus? Dov’erano le stazioni dell’omnibus (ad esempio a Notre Dame de Lorette, nei cui paraggi sono solito prendere alloggio e dove si aggira anche Frédéric Moreau in qualche passo de L’educazione sentimentale, ce n’era una, apprendo leggendo gli appunti di Benjamin, dove si faceva il cambio dei cavalli). Ma a Parigi nasce la pubblicità (la réclame, a proposito, eccone una definizione di Benjamin. «La pubblicità è l’astuzia con cui il sogno si impone all’industria») ed ecco un intero capitolo su “Esposizioni, pubblicità, Grandiville” tutto costruito con grossi blocchi di testo prelevati da quella miniera che è la Bibliothèque nationale. Adesso raggiungibile con un clic qui.
Ma ha bisogno anche delle immagini. Ricordiamo che a Parigi nasce la fotografia. Deve rintracciare le foto di Nadar (Quand j’étais photographe) che aveva preso degli scatti superbi del poeta. O potrebbe anche interessargli la pubblicità del cioccolato Marquis nel 1846 e vederne i manifesti (affiches) ed ecco allora ispezionare il “Cabinet des estampes”, quello che per noi è “Immagini” di Google).
Un lavoro immane insomma. 13 anni, dal 1927 al 1940. Da spaccare la schiena: peggio che lavorare in miniera. E Benjamin tra un appunto e l’altro faceva saettare il suo genio. Da un piccolo frammento della vita parigina traeva fulminanti apoftegmi, che io cito à la diable, di questo tipo:
-«Proviamo noia quando non sappiamo cosa stiamo aspettando. Saperlo o credere di saperlo è quasi sempre solo l’espressione della nostra superficialità o della nostra distrazione. La noia è la soglia verso grandi imprese. Ora sarebbe importante sapere: qual è il contrario dialettico della noia?».
-«Lo zibaldone ha qualcosa dell’ingegno del collezionista e del flâneur» oppure «Il collezionismo è un fenomeno originario dello studio: lo studente colleziona sapere».
-« I potenti vogliono mantenere le loro posizioni col sangue (polizia), l’astuzia (moda), l’incantesimo (sfarzo)».
– «Quanto più la vita è normata amministrativamente, tanto più la gente deve imparare ad attendere. Il gioco d’azzardo possiede il grande fascino di rendere la gente libera dall’attesa».
Ecco chi era Walter Benjamin. Ma questo genio non poté trarre, dal suo immenso materiale e pur con quell’immane fatica di Sisifo, il suo capolavoro. A me è capitato lo stesso. Ma per una ragione più semplice. Ho internet ma non sono Walter Benjamin.
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