Letteratura
Nulla è più faticoso che l’esercizio della libertà. Parola di Carlo Levi
Carlo Levi è tornato ad essere un intellettuale discusso pubblicamente. Il fatto che non si stia celebrando un «anniversario tondo» è significativo. Questo anno corrono i 120 anni dalla nascita, per di più la data è il prossimo 29 novembre e non in queste settimane. Tutto ciò indica che ciò che muove la riflessione non è un’occasione di maniera.
La mostra promossa dalla Fondazione Licia e Carlo Ludovico Ragghianti di Lucca propone un percorso a tutto tondo dove arte pittorica, ma poi anche cinema, e soprattutto la storia di un’amicizia di grande spessore. Insieme l’iniziativa in corso in queste settimane dedicata a Carlo Levi ritrattista (la mostra è promossa dalla GAM di Torino), testimoniano di questo rinnovato interesse in gran parte rivolto a Carlo Levi come intellettuale pubblico.
Anche per questo, forse, è meglio prendere la misura su una scrittura che non sia solo quella delle due opere più famose o che in qualche modo lo accreditano come intellettuale pubblico. Ovvero Cristo si è fermato ad Eboli e L’orologio.
Quella scrittura, a mio avviso, sta in un quaderno di lavoro che Carlo Levi compone alle soglie della Seconda guerra mondiale: Paura della libertà, testo che non ha mai avuto fortuna pubblica. Edito più volte (l’ultima nel 2018) quel saggio è rimasto sostanzialmente marginale.
Eppure per Carlo levi le idee che muovono quelle riflessioni sono fondamentali, tanto da riprenderle appena avrà possibilità di parola pubblica nei giorni di Firenze finalmente libera. Scrive il2 novembre 1944, sulle pagine ella “Nazione del Popolo” il giornale del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale che dirige, Il testo si intitola Paura della libertà ed esce nel numero del 2 novembre 1944:
La paura della libertà è il sentimento che ha generato il fascismo. Per chi ha l’animo di un servo, la sola pace, la sola felicità è nell’avere un padrone; e nulla è più faticoso, e veramente spaventoso, che l’esercizio della libertà. Questo spiega l’amore di tanti schiavi per Mussolini: questa mediocrità divinizzata, necessaria per riempire il vuoto dell’animo, e calmarne l’inquietudine con un senso di riposante certezza. Per chi è nato servo, abdicare a se stesso è una beatificante necessità.
Noi oggi capiremmo ben poco di quelle pagine se non le collocassimo in un contesto complesso.
Quando Levi stende le sue note in una sorta di finis terrae che potrebbe accomunarlo alla condizione di Benjamin, la scena del mondo è estremamente confusa. Lo spazio della critica e della riflessione autonoma a sinistra si è di fatto azzerato. Sono i mesi del patto Molotov-Ribbentrop, della criminalizzazione da parte del Pcf di Paul Nizan (un autore che sarebbe opportuno riprendere a leggere), per il suo rifiuto di aderire alla svolta staliniana del patto tedesco-sovietico, delle lacerazioni tra cultura della pace e necessità della guerra.
È indubbio che nella stagione dell’incertezza, nella illusione del «rinvio», secondo un’immagine di grande efficacia sintetizzata da Sartre, Carlo Levi trasponga in Paura della libertà la sensazione di una grande solitudine, di una assoluta fine della civiltà di un trionfo della barbarie cui pochi sono in grado di sottrarsi.
Paura della libertà ha i tratti della radiografia lucida del grado di alienazione collettiva. Un testo che è composto nei mesi incerti della «drôle de guerre», nell’inverno tra il 1939 e il 1940, quando la parola Europa significa «nuovo ordine europeo» scandito al ritmo dell’espansione del nazismo su tutto il continente e le parole autonomia e federalismo, almeno nel contesto della Francia, costruzione politica fondata sull’idea e sulla pratica del centralismo amministrativo, acquistano i toni e gli aspetti della nostalgia passatista, dell’ordine gerarchico patriarcale, del fascino etnocentrico per il culto localistico.
E tuttavia quelle pagine non sono solo il termometro del terrore e della nuova barbarie.
Carlo Levi ha meditato lungamente queste immagini in cui si esprime la arcaicità dei rapporti umani, e anche la subalternità degli individui a un sistema. In esse si riflettono gli scenari e i sistemi di relazione di una società quale quella che egli descrive nelle pagine del Cristo, ma non solo. Esse traducono, o ritraducono, temi e argomentazioni che circolano nella cultura della crisi, ma hanno anche una loro specifica localizzazione nella Parigi di fine anni ’30.
A proposito di Paura della libertà il giudizio unanime è che quelle pagine debbano molto alla lettura de La crisi della civiltà di Johan Huizinga e de La ribellione delle masse di Ortega y Gasset, e per loro tramite alla riflessione sulla crisi dell’Occidente proposta da Spengler e da Jung.
È probabile che Carlo Levi abbia risentito di questo tipo di saggistica, ma a mio avviso essa va considerata con una certa cautela. È probabile che di tutto il saggio di Huizinga, Levi abbia presente in particolare il capitolo dedicato alla figura dell’eroe, quello in cui Huizinga stabilisce la connessione tra arcaico e moderno e propone che l’immagine dell’eroe moderno e la versione mitologica di quell’antico si complichino soprattutto come processi di costruzione mentale.
In questo ambito la riflessione di Huizinga in merito al tema dell’imbarbarimento – che egli lega ai processi di modernizzazione culturale – si riconnette alle questioni sollevate da Ortega e che Huizinga richiama nel suo testo. Non è improprio ritenere che La ribellione delle masse costituisca una fonte primaria per Carlo Levi. Tuttavia è sbagliato assumere quel testo come il luogo teorico privilegiato della sua scrittura.
Nella filosofia di Ortega il tema della massa è in opposizione a un’élite, mentre per Levi è funzionale. Tuttavia, questa non è che una prima distinzione. Altre se ne possono individuare. Nella descrizione dell’epoca presente, Ortega ha l’immagine di un processo transitorio, di crisi, ma transitorio. Per Carlo Levi il passaggio non è transitorio, ma è una risacralizzazione della vita e dei sistemi di relazione e dunque il passaggio è dentro un paradigma del dominio. Lo stesso vale per l’immagine del concetto di status, per cui l’incertezza del presente deriverebbe da una noncuranza per le possibilità che esso fornisce nel rapporto tra desideri e loro soddisfacimento in relazione alle possibilità permesse dallo sviluppo precedente. È una tesi che parte dal presupposto che lo sviluppo è figlio di una continuità e che l’incoscienza dell’uomo-massa la distrugge.
La mia tesi – scrive Ortega nella Ribellione delle masse – è dunque questa: la perfezione stessa con cui il secolo xix ha dato un’organizzazione a certi ordini della vita, è la prima causa per cui le masse che ne beneficiano non siano disposte a considerarla come un’organizzazione, ma come una «natura». In tal modo si spiega e si definisce l’assurdo stato d’animo che queste masse rivelano; non sono preoccupate se non del loro benessere e, nello stesso tempo, non si sentono solidali con le cause di questo benessere. Siccome non vedono nei vantaggi della civiltà una scoperta e una costruzione prodigiosa, che soltanto si possono mantenere a costo di grandi sforzi e cautele, credono che la propria funzione si riduca a esigerli perentoriamente, come se fossero diritti nativi. Nelle sommosse che la carestia provoca, le masse popolari cercano di procurarsi il pane, e il mezzo a cui ricorrono suole essere quello di distruggere i panifici. Questo può servire come simbolo del comportamento che, in più vaste e sottili proporzioni, usano le masse attuali di fronte alla civiltà che le nutre.
Ma in merito a ciò il tema della ribellione e delle folle, comunque della rabbia delle masse, per Carlo Levi seguiva un andamento esattamente opposto: proprio perché lo sviluppo non ha portato benessere, allora ha luogo la rivolta. Questa dimensione è evidente nella descrizione dell’uomo-massa come disincantato rispetto al fascino del potere tradizionale e che, al contrario, invece per Carlo Levi costituisce propriamente il carattere fondante del mito politico in corso.
Fin qui se noi ci limitiamo al confronto con il testo di Ortega y Gasset. Ma le influenze, o almeno le suggestioni che Carlo Levi deposita nelle sue note di finis terrae, andranno individuate anche altrove e forse non impropriamente in quell’ambiente al margine del surrealismo che si muove intorno a Georges Bataille e che fin dal 1933 propone una riflessione sullo Stato e la sacralità e che dà particolare rilievo alla dimensione del sacrificio nel vissuto della politica. Sono i temi su cui Bataille scrive nel suo saggio sul fascismo e che poi ripropone nel 1939 sul tema della guerra e che hanno un loro passaggio essenziale nelle riflessioni che Roger Caillois propone nel febbraio 1938 al «Collège de Sociologie» sul tema del potere.
Al centro di Paura della libertà non sta tanto la diagnosi di un tempo cupo in cui le forme del dominio definiscono un meccanismo politico «ordinato» e gerarchico che sancisce la perennità istituzionale, quanto, soprattutto, l’idea di un’istantanea fuori del tempo o comunque di un territorio sottratto al tempo che probabilmente costituisce il parametro più vicino alla condizione che caratterizza poi le pagine di Cristo si è fermato a Eboli, ma che anche ritorna come macchina generativa nelle pagine de Il futuro ha un cuore antico, dove di nuovo è l’arcaicità a garantire un possibile sviluppo proiettato nel tempo.
Saremmo in errore a considerare questo aspetto come un elemento terrifico, come un’ossessione. C’è un aspetto di Paura della libertà che non emerge immediatamente e che merita, invece, di essere sottolineato in un’epoca di apparente disincanto per la dimensione politica pubblica quale quella che innerva gran parte dei sentimenti di questo nostro presente.
Nella descrizione del rapporto tra cittadino e Stato – ma più correttamente si potrebbe dire tra potere e suddito – che Levi pone indubitabilmente al centro di quelle sue pagine, si colloca la denunzia di un eccesso della politica proprio sulla base e in forza di una sua spoliazione, ovvero in relazione e in conseguenza di una depoliticizzazione dell’individuo. Non è l’unico paradosso su cui Levi lavora, ma è uno dei tanti ossimori su cui non sarebbe inutile riflettere. Soprattutto in questo nostro presente incerto.
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