Letteratura
“Non ho paura di morire”: un viaggio nell’anima del Mediterraneo
Luoghi comuni ce ne sono non pochi. A tratti dà l’impressione di una guida del Touring fin eccessivamente puntigliosa seppur con qualche grossolano errore (la fortezza di Masada, in Israele, segnalata come meta poco turistica). Qua e là poi la scrittura esonda in un eccessivo compiacimento narcisistico. Allora perché recensire, e alla fine consigliare Non ho paura di morire (Salani)? Un passo indietro, gli autori: Diego Dalla Palma, genialoide costumista e scenografo, scrittore, immeritatamente noto invece ai più come esimio truccatore; Alessandro Zaltron, romanziere e, tra l’altro, ideatore dei cosiddetti racconti d’impresa, vale a dire storie aziendali raccolte in una collana da lui diretta per l’editore FrancoAngeli.
Perché vale dunque la pena di leggere questa operazione narrativa abbastanza bizzarra anche nella forma semi-epistolare? Fosse anche semplicemente per premiare il coraggio della libertà (o è “delirio” di onnipotenza?), il coraggio di avere voluto affrontare così impudicamente il tema della morte, o meglio della ricerca della morte, insomma del suicidio. Però non basta. In queste pagine è racchiusa una impressionante e a mio avviso fortunata miscellanea di dolore e gioia quasi ancestrali, di amarezza e disillusione senza vittimistici e compiaciuti rimpianti.
A differenza del protagonista di Stoner di John Williams che pensava alla propria morte come a un esilio ulteriore, più strano e duraturo di quello che conosceva, il Valerio di Non ho paura di morire decide lucidamente di andarsene. Lui, interprete teatrale di buona fama, pare non accettare i limiti che agli albori della vecchiaia il corpo gli impone. Alle spalle di tutto ciò aleggia un mistero, la morte del padre in circostanze assai poco chiare. Così Valerio cerca aiuto nel suo migliore amico, Massimo, co-protagonista, giornalista trentenne tormentato e adesso annichilito dalla richiesta che tuttavia non si sente di rifiutare, anche se a un patto: una sorta di pellegrinaggio sentimentale/affettivo in cui da lontano Massimo guiderà Valerio nella speranza di fargli alla fine cambiare idea.
Ed ecco la mappa/traiettoria “viva” un po’ genere Lonely Planet, itinerario percorso in buona parte nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo ma non solo. Con la nostalgia del fado, il misticismo di Kerbala, l’esotismo del Bosforo, la potenza dell’Etna e la solitudine aspra della Majella… Un lungo, lento, esaltante, sospeso e insieme carnalissimo, lacerante viaggio nella propria anima, ritrovando e abbracciando, stringendo volti e corpi amati che hanno segnato le diverse stagioni e gli snodi di una vita.
In realtà – e è senz’altro un pregio – nella storia piena di storie non si respira alcuna atmosfera di cupa depressione. Anzi – sarà una mia impressione – sia Valerio sia Massimo e i loro comprimari, ci tirano dentro di volta in volta in situazioni tristi, commoventi, anche strazianti, qualcuna disperata e però inequivocabilmente vitali. Come dire che il libro non sembra conoscere quel dolore oltre il dolore che è la depressione. A salvare Valerio (in che senso salvarlo?, lo saprete leggendo la fine del racconto) è la scoperta consapevole e lucida che il nostro senso profondo, direi l’unico reale senso dell’esistenza è ciò che lasciamo agli altri. Nel caso specifico gli altri sono uomini e donne, giovani e vecchi, morti e vivi, “creati” con semplice e raffinata umanità e sensibilità, e talvolta con travolgente sensualità.
Forse la metafora sarà anche “bassa”, e però è proprio vero che «la vita è come i phon negli alberghi: finché tieni premuto l’interruttore, tutto funziona. Esce soffio vitale. Appena molli la presa, non ci sono rendite di posizione. Tutto si spegne, subito. Accendere manualmente, premere sull’energia. La vita non è un automatismo, è un atto. Senza volontà, si spegne. Come i phon degli alberghi».
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