Letteratura
Non fate troppi pettegolezzi
Le ultime parole che un uomo, poco prima di togliersi la vita, lascia scritte su un foglietto sono queste: “non fate troppi pettegolezzi”. E le pone in chiusura di un testo poco più ampio che recita: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene?”.
Siamo nell’albergo Roma di Torino, di fronte a Porta Nuova. Siamo sessantanove anni fa. E l’uomo è Cesare Pavese, poeta, scrittore, miscuglio di spaziosa cultura e sensibilità profondissima, trovato immerso in un sonno perenne dal personale dell’hotel, e dichiarato non più vivo dal medico, accorso sul luogo dell’accaduto poco dopo la tragica scoperta. Un atto di masochismo estremo e, allo stesso tempo, un omicidio lieve: questo il suicidio per Pavese, ben altro e molto di più la morte, cercata più volte e arrivata, definitivamente, nella notte a cavallo tra il 26 e il 27 agosto di quel 1950.
Come ricordarlo nel suo anniversario?
Ho scelto di farlo così, con l’ultimo prezioso insegnamento che ha voluto lasciarci con ognuna di quelle parole della Fine; perché, come ci rammenta con tutta la folle lucidità di uomo che sta morire, tutti dobbiamo perdonare per poter vivere dignitosamente e tutti dobbiamo avere l’umiltà di chiedere perdono. La richiesta accorata di un armistizio tra chi resta, tra chi va, raccolto coraggiosamente in quel “Va bene?” pungente, lapidario.
E poi, soprattutto, “Non fate troppi pettegolezzi”, intorno alla mia morte, intorno alle morti e alle vite di ognuno, poiché possiamo sapere ben poco dell’intimità altrui e quindi dobbiamo averne rispetto, cura, senso di protezione, come dovrebbero averne gli altri con la nostra; e non fate mai della parola-facile pretesto per nominare l’arte, la poesia, la letteratura.
Ho scelto di ricordarlo anche con questa poesia, modi forse banali per dirgli, però, autenticamente grazie.
Agonia
Girerò per le strade finché non sarò stanca morta
saprò vivere sola e fissare negli occhi
ogni volto che passa e restare la stessa.
Questo fresco che sale a cercarmi le vene
è un risveglio che mai nel mattino ho provato
così vero: soltanto, mi sento più forte
che il mio corpo, e un tremore più freddo
accompagna il mattino.
Son lontani i mattini che avevo vent’anni.
E domani, ventuno: domani uscirò per le strade,
ne ricordo ogni sasso e le strisce di cielo.
Da domani la gente riprende a vedermi
e sarò ritta in piedi e potrò soffermarmi
e specchiarmi in vetrine. I mattini di un tempo,
ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo
di esser io che passavo-una donna, padrona
di se stessa. La magra bambina che fui
si è svegliata da un pianto durato per anni
ora è come quel pianto non fosse mai stato.
E desidero solo colori. I colori non piangono,
sono come un risveglio: domani i colori
torneranno. Ciascuna uscirà per la strada,
ogni corpo un colore-perfino i bambini.
Questo corpo vestito di rosso leggero
dopo tanto pallore riavrà la sua vita.
Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d’esser io: gettando un’occhiata,
mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.
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