Letteratura
Non dimentichiamo Grass: confessò il suo nazismo perché amassimo l’Europa
La morte di Günter Grass ha posto il problema a molti di come classificarlo e dunque di come ricordarlo.
Il problema è presto detto: una figura pubblica che ha a lungo fatto della protesta e della irriducibilità al potere un proprio simbolo, si trovò a 79 anni a raccontare in pubblico di una esperienza giovanile che rimette in discussione quella immagine. E’ la storia che Grass ha raccontato nel suo Sbucciando la cipolla in cui dà conto della sua adesione alle Waffen SS, cioè al nazionalsocialismo.
Quella scelta, allora, ma soprattutto il fatto di aver fatto trascorrere più di 60 anni per raccontarla ha fatto riflettere molti su Grass come intellettuale, secondo quella fisionomia canonica con cui l’intellettuale come categoria sociale, come “maschera” è entrato e si è proposto a partire dai primi anni del Novecento: “moralizzatore” o fustigatore del pubblico costume solo in riferimento agli altri. In breve ha posto il problema della propria ipocrisia.
Capisco quella reazione, ma personalmente non la condivido. Per due motivi.
Il primo dipende da ciò che a noi resta di Günter Grass. A noi restano Il tamburo di latta, Gatto e topo e Anni di cane. Ovvero, resta la capacità di una scrittura e di uno scrittore (non da solo perché negli stessi anni bisognerebbe almeno ricordare Hans Magnus Enzensberger, Ingeborg Bachmann, senza dimenticare Heinrich Böll) di prendere il nazismo e tradurlo nello scavo della vita quotidiana, di ciò che accade.
Un processo di scavo, di decostruzione che ha consentito per la prima volta, intorno alle vicende di un regime totalitario, di non ragionare solo in termini di responsabilità dei capi, ma di comprendere che il totalitarismo, a differenza dell’autoritarismo, si regge in gran parte sull’assenso e sulla partecipazione attiva dei sudditi. In breve si produce e realizza i suoi obiettivi in forza – “in virtù”, mi verrebbe da scrivere sfidando il paradosso – del consenso dei suoi amministrati, dei governati. E dunque, per comprenderlo, sono proprio loro, gli amministrati, i sudditi, gli uomini comuni, ha detto anni dopo Christopher Browning, che vanno messi sotto la lente di ingrandimento, vanno studiati.
Il secondo riguarda il fatto che studiare quel fenomeno significa anche capire che dal totalitarismo non si esce innocenti. Resta una traccia, un segno. In breve la fuoriuscita da quell’esperienza si paga con una cicatrice – la gobba di Oskar Matzerath – che rimargina la ferita ma non restaura il quadro precedente.
Quella gobba non è solo una metafora o artificio letterario. E’ un aspetto importante e forse è il tratto più significativo di una riflessione talora intransigente, talaltra estrema, proprio quella che Günther Grass ha proposto.
Non si nasce radicali o intransigenti, l’intransigenza è un apprendistato che si forma dovendo misurarsi con le scelte che si sono fatte in vita, con gli atti che hanno segnato una lunga fila di “dimissioni” o di revoche.
Grass negli anni successivi al suo Nobel, nel 1999, avrebbe potuto continuare su quella strada in cui si era incamminato già da molti anni: quella di riservarsi il ruolo del malessere tedesco non nostalgico del passato delle “due Germanie” eppure nemmeno soddisfatto delle modalità perseguite con l’unificazione e complessivamente molto critico del processo di costruzione dell’Europa che percepiva ripercorrere il paradigma della “guerra fredda”. Ha deciso a un certo punto che quel percorso doveva essere raccontato includendovi la storia della prima scelta, senza addolcire né edulcorare.
A me pare che il fine fosse ribadire che c’è una possibilità di uscirne. In un’Europa che iniziava il suo percorso verso il fascino per la destra estrema o per le nuove intolleranze, quella “confessione” non l’ho mai intesa solo o prevalentemente come un dato biografico taciuto che andava “riparato”, come un silenzio troppo a lungo conservato e poi liberatoriamente infranto, ma come un modo di spiegare come poteva accadere che l’Europa andasse incontro a una nuova possibile metamorfosi. A come fosse possibile, insomma, pensare di “essere a casa”.
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